“In questo sistema, ogni persona è un estraneo, smarrito, solitario, irrilevante. Tutti a parte quella persona, l’unica e sola che conta. Lei è l’ossigeno che respiriamo, l’essenza del nostro dovere”.
I nuovi 10 episodi della quarta stagione di The Crown sono forse i migliori della serie tv – già imperdibile di suo – che narra le gesta della regina Elisabetta II.
La serie tv, su Netflix dal 2016, si ispira alla deliziosa – un gioiello praticamente – opera teatrale “The Audience” del 2013, che raccontava gli incontri settimanali tra la Regina e il lungo elenco di Primi Ministri (Helen Mirren vestiva sul palcoscenico gli integerrimi panni della regina).
Interpretata con equilibrio, senza sbavature, oltre il copione, cioè oltre la parola scritta, assimilando le personalità, con vizi, virtù, tic, smorfie, ghigni, posture e maniere, The Crown affronta gli anni quanto mai turbolenti degli anni 80 del regno di Elisabetta II.
Intrighi personali, storie d’amore e rivalità politiche e i grandi eventi che hanno plasmato la seconda metà del XX secolo. Fin qui, forse, nulla di diverso, rispetto alla ricostruzione tra favola e cronaca, con una speculazione quanto mai accurata e misurata di dialoghi privati, britannicamente affilati. Ma la quarta stagione vede l’entrata in scena di due donne che hanno (s)travolto, ognuna a suo modo, la monarchia, la Gran Bretagna e il Mondo. Tanto che se ne discute e chiacchiera ancora oggi.
Applausi a scena aperta per la dosata, intrigante e magnetica Emma Corrin nel ruolo praticamente impossibile della Principessa Diana e per la strabiliante Gillian Anderson nei panni di una laccata, irritante e orgogliosa del suo potere Margaret Thatcher.
Il primo episodio ci porta nel 1979, con l’elezione della prima donna premier britannica; il decimo termina nel Natale del 1990, con Diana e Carlo ai ferri corti, sulla strada che poi li porterà alla separazione nel ’96. Ma siamo già troppo oltre.
La quarta stagione di The Crown è quella più femminile. Il tono emotivo, cui si sono abbandonati i precedenti episodi, non senza un po’ di roboante melodramma patinato, qui per contro, considerando i soggetti in scena, si adagia e veste i dialoghi e gli sguardi, senza mai essere superfluo. Elisabetta, Diana, Margaret e poi ancora la sorella, la principessa triste, e la figlia, ribelle, della Regina, e Camilla: sono le donne cui ruota intorno una Nazione intera e di conseguenza il mondo della politica, dell’economia, del gossip e del mito. Gli uomini ci sono, ovvio. Filippo, Carlo e i fratelli. Ma se Filippo ha assunto il ruolo di saggio della famiglia, gli altri uomini non possono tenere il passo delle donne, ognuna per il suo destino, al potere.
Trucco e parrucco, ricostruzione di un decennio di fuoco e fiamme: l’Irlanda del Nord; il matrimonio di Carlo e Diana; le Falkland; le ombre nere che si allungano sul ramo genealogico materno di Elisabetta e Margaret: le cugine Bowes-Lyon reiette, nascoste, abbandonate in manicomio; i legami padri e figlie e madri e figli; l’Apartheid. God save the Queen. La famiglia deve piegarsi a qualcosa di molto più grande, per non incrinare la Monarchia.
Dieci brillanti avvincenti episodi, tra pettegolezzo, mito e cronaca si fanno guardare, o ammirare, con dovizia di particolari. Una soap opera? sì, forse. Tuttavia, conoscendo il destino dei personaggi in scena, tutto assume un contorno interessante, dolente, a tratti esasperante. Merito non solo della scrittura di Peter Morgan, ma anche della sottigliezza interpretativa degli attori, come si diceva, e splendidamente diretto da Benjamin Caron.
Da venerdì 15 novembre su Netflix.