Roy Andersson torna a calcare le scene del festival lagunare e lo fa da vincitore, potendo far vanto del Leone d’Oro 2014, presentando per l’occasione il suo sesto lavoro in assoluto e il quarto della seconda e maggiormente riconosciuta parte della sua carriera.
Om det oändliga che si traduce con “sull’esistenza” è un film che similmente a Un piccione riflette seduto su un ramo riflette sull’esistenza si articola in simil-vignette che possono essere associate fra loro e avere uno sviluppo narrativo nel corso del tempo o rappresentare situazioni singole senza ulteriore seguito o collegamenti. Un prete ha perso la fede, un medico ha perso la voglia di lavorare, un dentista vorrebbe mollare tutto, un passeggero di un autobus si lamenta di non sapere cosa vuole, e poi a tutto ciò si aggiungono un dialogo di due ragazzi sulla termodinamica, un paio di mariti e padri violenti, le solite due scene di carattere storico che ormai sono una firma per Andersson.
È chiaramente un film sull’uomo, sulla sua esistenza, sul suo rapportarsi con l’infinito e l’acquisizione della consapevolezza di essere un ente finito. Lo spettatore è per l’occasione accompagnato da una sorta di divinità che, sulla falsariga del personaggio Shahrazād, si fa narratrice sognante dei fatti del mondo, di quella serie di episodi che escono dalla cornucopia di questa dea Abbondanza rivisitata e che Andersson ritiene essere il fulcro della storia umana, che è storia della fragilità. L’autore svedese sintetizza una serie di riflessioni che viaggiano come al solito per associazione di idee o parallelismi con scene che sembrano quadretti. La mdp è sempre piazzata o in un angolo o di fronte a un angolo, dando sempre un’impressione di chiuso, di circoscritto, come ci fossero delle altre linee di separazione oltre a quelle dello schermo; e la posizionalità di Andersson è la chiave per capire il suo cinema, questo suo spasmodico eppure freddissimo tentativo di separare le scene con tagli netti e contrastanti, di non legare i personaggi o le situazioni più del necessario, è fondamentale per trasmettere l’idea di momenti puntuali appartenenti all’umanità tutta, dando la sensazione di una molteplicità di fonti e provenienze.
Lo scopo rimane quello di presentare un caleidoscopio di esseri umani che con la loro diversità e l’eterogeneità che impone la regia dovrebbero figurare come una sorta di campione statistico immune da difetti di forma, perfettamente analizzabile. E i personaggi si fanno analizzare eccome, sono molto semplici, hanno poche caratteristiche e lo espongono in maniera chiara, il fil rouge che li lega è la fragilità. Ognuno vi oppone resistenza come può, dal prete ateo al passeggero depresso che si struggono a tutti quei tipi umani che utilizzano schermi, e cioè il potere in tutte le sue forme, che sia esercitato attraverso il denaro, l’ideologia, la morale. È un fluire continuo e inarrestabile che si trasforma e cambia contenitori ma la cui quantità originaria non cambia mai; nelle parole dello studente che enuncia il primo principio della termodinamica si legge l’ambiziosa sovrapposizione tra energia dell’universo e l’effemerità dell’essere umano.
La dea narratrice raccoglie esperienze, le collega attraverso lo spazio e il tempo che sono impedimento solo per noi piccoletti, e Andersson ha la lucidità di far dire alla fanciulla eterea che ancheggia nei cieli scandinavi che non solo la storia umana non fa salti – e quindi il male non va espunto in quanto deviazione ma considerato intrinseco – e l’ardire, dal momento che in seguito si spinge ampiamente oltre, di fare della della finitezza il motore dell’universo, il suo principio creatore.
L’umorismo a tratti sottilissimo e silenzioso, a tratti slapstick, mitiga le pretese non del tutto soddisfatte, non è che le riflessioni che porta avanti Andersson siano così sagaci o suggestive infatti, per lo più confluiscono in un’affermazione, per quanto scrupolosa e pervasiva, del fatto che l’uomo muore e deve fare i conti con questo: non solo esse non sono nulla di nuovo ovviamente, ma non appaiono neanche lontanamente come frutto dell’anche più piccola elaborazione. È pur sempre vero che il nostro si pone come un osservatore pseudo-scientifico che ama le evidenze e si premura di far notare analogie dove non sembrano esserci, però Om det oändliga non accarezza nemmeno la superficie con la punta della dita e fa filtrare il sentore di un film che si prende troppo sul serio a volte. Non che il fratello del 2014 fosse troppo diverso, ma aveva un quid in termini di brillantezza che quest’ultima opera di Andersson non sembra proprio possedere.