Fra la fine del 1999 e i primi mesi del 2000 si decise probabilmente quello che per i venti anni successivi (e forse anche più a lungo) sarebbe stato il destino di un paese così grande e magmatico come la Russia: sono i mesi del passaggio di consegna delle chiavi del Cremlino da Boris El’cin a un giovane e quasi sconosciuto funzionario che ancora oggi si ritrova a coprire quella stessa carica: Vladimir Putin.
Conosciamo Vitalij Manskij per il suo modo partecipe, mai freddo, ma neanche pregiudiziale o parziale, con il quale analizza soprattutto i difetti e le complicazioni della storia russa contemporanea: la guerra con l’Ucraina con il suo Rodnye–Close Relations, le difficoltà dell’emigrazione post-sovietica in Gagarin’s Pioneers/Our Motherland, la pericolosa fascinazione mediatica esercitata sulla gioventù russa in Virginity; forse meno noti sono alcuni suoi lavori più “di servizio”, con i quali documentava i cambi di potere a cavallo dei due millenni, e con i quali si interrogava e interrogava direttamente i principali protagonisti del turning point secolare e storico, quali El’cin, Gorbacjov e Putin stesso.
Fra 1999 e 2000 appunto, mentre l’ormai acciaccato primo presidente della Russia post-sovietica Boris El’cin orchestrava un’uscita di scena soft per sé e gli interessi (anche giuridici) del proprio entourage familiare, e spingeva il suo delfino prescelto Vladimir Putin a diventare il suo successore, Manskij ebbe la responsabilità e il privilegio di girare un reportage televisivo sulla atipica campagna elettorale e sui primi giorni di potere di quello che sarebbe poi divenuto per lunghissimo tempo il padre padrone della scena politica russa.
Il nuovo inquilino del Cremlino veniva interrogato sui suoi programmi, sui cambiamenti che intendeva operare, su quali fossero a suo parere le necessità del popolo russo e le priorità di governo. Erano quelli incontri inusualmente sereni e rilassati fra due personaggi che al giorno d’oggi non potrebbero trovarsi più distanti sulle valutazioni e sulle ipotesi di sviluppo del paese, ma che nel 2000 si stavano ancora studiando, si prendevano anche bonariamente in giro, forse si rispettavano anche, non foss’altro per mancanza di informazioni sulle reali intenzioni reciproche. Riguardando ora quelle immagini, che costituiscono il nocciolo e il punto di partenza di Putin’s Witnesses, sembra quasi che i due in futuro avrebbero potuto collaborare, condividendo speranze di democrazia e sviluppo pluralistico per i centoquaranta milioni di abitanti della Federazione Russa.
Le cose sono andate molto diversamente, e con un intenso lavoro di rimontaggio, ripensamento, ridefinizione dei valori storici Manskij si rimette in gioco, interroga sé e le immagini vecchie di quasi vent’anni che nel frattempo hanno acquisito una inevitabile patina da “senno di poi”, e possono essere lette in prospettiva. Non è affatto facile per uno dei documentaristi meno avvezzi ai compromessi di tutta la scena russa e mondiale dover ammettere alla fine di questo processo di auto-analisi che forse all’inizio le sue stesse immagini, involontariamente, incolpevolmente, erano troppo morbide e pacificate. Non certo ingannevoli o complici, ma forse poco incisive e graffianti. Da un’intervista di un’oretta scarsa la riflessione si gonfia a quasi il doppio della durata, e dopo aver aggiunto materiali ed esperienze personali Manskij sembra quasi chiedersi: davvero non mi ero, davvero non ci eravamo accorti di nulla? Forse che a noi osservatori, registi, documentaristi lo sguardo neutrale può essere imputato come colpa?
Non si tratta di colpe reali, concrete o imputabili a una qualsivoglia tendenza al compromesso, bensì di una necessaria, a volte inevitabile presa di coscienza di un fatto innegabile: non si può avere sempre uno sguardo profetico. Rispetto al reportage televisivo che ne uscì allora (Putin. Un anno bisestile, 2001) Manskij aggiunge materiali privati, personali, fortemente intimi, e li combina ad incastro con brani tratti dagli altri due simili lavori portati avanti contemporaneamente in quell’inizio di millennio: Gorbacev. Dopo l’impero e El’cin. Un’altra vita. La voce over del regista commenta con il suo abituale tono pacato e interrogativo le possibilità inespresse di quegli eventi, le cause possibili e ricostruibili dell’effettiva evoluzione cui esse diedero vita e, solo in alcuni casi eccezionali, si pone la questione delle possibili alternative, dei “se” storici. Il tutto è preceduto da una cornice rappresentata dalle riprese della famiglia Manskij (la moglie Natalja e le due bellissime figlie adolescenti) durante le serate natalizie in cui tutta la popolazione del paese seguiva con apprensione la scelta del nuovo presidente e le prime dichiarazioni ufficiali di Putin per il discorso di fine anno. L’immersione di un ganglio storico così fondamentale per il paese in un contesto familiare e in un filtro estremamente personale permettono di ricordare quale importanza abbia avuto quell’avvicendarsi di poteri sulle vite private di molti successivi “dissidenti” (la stessa famiglia di Manskij ha deciso qualche anno fa di optare per l’emigrazione, abbandonando la Russia, alcuni dei personaggi citati vent’anni fa hanno fatto una fine tragica come Boris Nemcov), e ci restituisce un documentario preziosamente ibrido. Siamo infatti a metà fra la riflessione autoanalitica sull’evoluzione del proprio lavoro (come è ben noto, da direttore della sezione documentaria di una tv nazionale Manskij è divenuto con gli anni uno dei maggiori oppositori di Putin), e l’analisi delle radici eziologiche dello stato attuale della Federazione Russa, in cui le proposte liberali e le aperture al mondo promesse da quell’apparentemente timido e dimesso ex funzionario del KGB sono purtroppo rimaste per lo più sulla carta, ossia sulla pellicola di quei film usciti nel lontano 2001.
Ma qualcosa di nuovo rispetto all’inizio del millennio c’è: uno dei pochi materiali dell’intervista a Putin non montate nel reportage iniziale è la curiosa querelle sull’inno nazionale, in quanto il nuovo presidente decise di reintegrare (con un nuovo testo svecchiato) la musica gloriosa di quello sovietico. Fra i motivi ovviamente la necessità di raccogliere consenso e confidenza nella storia nazionale attorno a un progetto di rinascita, che facesse perno sui momenti gloriosi e vincenti della storia russa, ma anche su certi suoi simboli; ma risulta curiosa e rivelatrice la successiva untuosa richiesta quasi off-camera del nuovo presidente di espungere qualsiasi riferimento a tale questione, quasi come se proprio in questa confidenziale conversazione un po’ imbarazzata iniziasse a delinearsi quel doppio livello di realtà-propaganda-autorappresentazione ritoccata che spingerà Putin a certi capolavori di doppiogiochismo, come le sue dichiarazioni sull’invasione della Crimea.
In definitiva, questa riflessione prospettica di secondo livello (ma di primissima mano) su un ventennio di storia russa serve a conoscere momenti ora difficilmente immaginabili della carriera di un grande osservatore della realtà socio-politica, ma anche a chiederci, come egli stesso fa con voce quasi addolorata, se la mera osservazione, se l’approccio distaccato del documentarista esime gli artisti dalla necessità impellente del commento critico, della valutazione, e se necessario di una urgente, per quanto pericolosa, condanna.
Vitalij Manskij, coraggiosamente, dolorosamente e senza facili autoassoluzioni se lo chiede: potevo far qualcosa allora? Potevo immaginare e restituire in immagini in un modo più problematico questo germe di potere che si sarebbe poi mangiato spazio di rappresentazione e immaginario collettivo di tutta una nazione? La domanda ultima, necessaria e per nulla fuori tempo massimo è: possiamo essere semplici testimoni senza essere complici?