Non riesco a ricordare quando sia stato l’ultimo momento della mia vita in cui non sapessi chi era Rem Koolhaas. Considerati gli anni di architettura – i miei sommati a quelli di mio cugino di dieci anni più grande, le cui riviste del settore sfogliavo ben prima di iscrivermi a mia volta – si può far risalire la presenza di OMA molto indietro, sin all’adolescenza. Non che fosse una presenza chiara, inizialmente nemmeno capita, ma sapevo che Rem Koolhaas era un nome importante che suscitava una reverenza quasi religiosa.
Iniziati gli studi sono giunta alla conclusione che effettivamente la religiosità aveva un po’ a che fare con quest’uomo dalla presenza ascetica: Delirious New York, il testo del 1978 che lo ha rivelato al mondo intero per quel genio visionario che è, si può considerare la Bibbia per ogni studente di architettura degli ultimi trent’anni. L’importanza che questo testo ebbe, e continua ad avere, per la letteratura architettonica è paragonabile al De Architectura di Vitruvio. Il che, per un non cultore, forse non è dire granché. Ma per chi ha ricevuto questa sorta di imprinting, non è eccessivo dire che Rem Koolhaas è assurto negli anni allo status di divinità. Da venerare o contro cui bestemmiare, ma senza dubbio divinità.
Si capisce dunque come l’interesse per questo documentario girato dal figlio fosse enorme: Rem non è noto per l’eccessiva cordialità (per usare un eufemismo – una scena in cui una giornalista viene ridicolizzata per l’incongruenza della sua domanda fa capire bene la severità di quest’uomo) e la possibilità di osservarlo più da vicino, con uno sguardo più intimo e meno filtrato dalle convenzioni aveva un fascino senza pari.
Il risultato delude tristemente tutte le aspettative e si rivela, purtroppo, un’opera ai limiti del didascalico e con un certo livello di pretenziosità non supportato dai fatti. Il doc è suddiviso in micro capitoli, ognuno introdotto da una citazione che viene successivamente elaborata dalla voce narrante dello stesso Rem Koolhaas. Quasi ogni momento è immerso, ai limiti del sostenibile, nelle musiche create apposta per l’occasione da Murray Hidary, che mirano a sottolineare la rilevanza di ogni singola parola o inquadratura. Parole e citazioni che potrebbero tranquillamente essere tratte da un qualsiasi testo o articolo su Rem: l’origine non è specificata e non portano ad alcuna rivelazione intima che contribuisca a umanizzare questo totem dell’architettura.
È come se l’intera opera partisse già del presupposto che Rem=Dio, e tutto quello che segue non fosse altro che una ricostruzione agiografica della sua poetica, che però è già stata ampiamente esplicitata e discussa in una miriade di testi.
Solo nella seconda metà dell’opera le interviste ai fruitori delle sue architetture sembrano dare nuovo slancio alla narrazione, ma anche queste finiscono per appiattirsi in considerazioni che paiono artefatte e mancano della spontaneità o dell’approfondimento necessari a renderle rilevanti.
Se ne esce senza davvero sapere molto di più di quanto già pubblicato sul grande maestro olandese, che rimane imperscrutabile nella sua ieraticità.