Prima delle due pellicole dell’America Latina di questo Concorso Internazionale, Tarde para morir joven è il terzo lungometraggio della cilena Dominga Sotomayor – per la prima volta a Locarno –, che attingendo alla materia prima dei ricordi d’infanzia scrive e dirige un affresco corale che si propone di far respirare a chi guarda la stessa aria carica di inquietudine che si respirava all’epoca.
In una piccola comunità ai piedi delle Ande, Sofìa – Demian Hernàndez –, adolescente e in cerca di esperienze, attende con impazienza la notte di Capodanno, quando, come promesso, la madre verrà a prenderla per portarla con sé a vivere in città. Nel mentre, le vite degli adulti, dei ragazzi e dei bambini della zona continuano a scorrere e a intrecciarsi, in un groviglio che sembra non lasciare via di scampo.
Benché privo di chiari riferimenti temporali, Tarde para morir joven si svolge negli anni Novanta, all’indomani delle prime elezioni democratiche che portarono alla caduta di Pinochet. In questo clima di rinnovamento come di incertezza, i protagonisti tentano di reinventare se stessi e la propria quotidianità, rientrando in contatto con la Natura. Ma l’isolamento non basta a sopire il conflitto, generazionale da un lato, e “di specie” dall’altro, che vede proprio la Natura opporsi alla vocazione eremitica dei personaggi.
Sotomayor si allontana dalla strada battuta, rinunciando a una facile drammatizzazione del periodo post-autoritario. Nel suo film, tutto è in transizione. Il cambiamento è in atto, e la mancanza di punti di riferimento non può che generare angoscia. La stessa macchina da presa prende le distanze da ciò che le sta innanzi, non commenta, non segue né indaga, rincorrendo il mito – solo di rado impressionato su pellicola – del tempo che prende forma nell’istante. Da qui la scelta della regista di scegliere attori non professionisti per la maggior parte dei ruoli senza stabilire questi ultimi in partenza, allo scopo di ricreare empiricamente all’interno del cast l’alchimia dei rapporti familiari.
Le mura (invisibili) di questo hortus conclusus non sono però che un’illusione e non possono proteggere fino in fondo gli inquilini al loro interno: la Natura lascia cadere la sua maschera di madre e si svela matrigna nella specie dell’incendio – fatto di cronaca realmente accaduto, che la regista visse in prima persona all’età di cinque anni –, mentre l’intero gruppo sociale crede ancora di poterlo estinguere con le sue sole forze, rifiutando l’aiuto esterno – e, più in generale, l’esterno a tutto tondo – anche nel momento estremo del bisogno. In questo quadro di devastazione, a lasciare aperto uno spiraglio è la fuga della cagna Frida, a segnalare la vanità e il crollo imminente dell’utopia dei suoi padroni umani.
Nonostante l’impegno intellettuale richiesto, Tarde para morir joven non lascia intravvedere nemmeno allo spettatore più attento un’intelaiatura in grado di motivare e nobilitare l’estrema economia espressiva dell’autrice, quasi fosse lei stessa l’unica in grado – forse grazie ai suoi ricordi di bambina? – di restare incantata dinanzi alla rievocazione di un mondo che, nei fatti, non è mai esistito.
Un po’ ruralista e un po’ nostalgica, Sotomayor non riesce a conciliare la riflessione sulla memoria – individuale e nazionale – con i nuovi terreni esplorati nell’ambito della forma, arrivando a un risultato nel complesso tedioso e con poca visione d’insieme, un mosaico con troppe tessere e che confonde.