Un titolo di giornale dice: “L’angoscia dura dodici ore”; l’occhiello recita: “Troppi morti sul «cammino della speranza»”. E il sommario rivela: “I «clandestini» partono da Bardonecchia in taxi per destare meno sospetti; proseguono su, per le cupe vallate in una lunga, estenuante marcia: molti però non arrivano al traguardo”. L’ articolo, guarda un po’, è firmato dall’inviato Emilio Fede. La data è ottobre 1956. Quei “clandestini” sono tutti italiani.

Arrivavano dal sud, principalmente dalla Calabria: sono contadini, molti di quelli che non accettarono di baciare la mano al barone Berlingeri nemmeno dopo l’eccidio di Fragalà del 1949. Impressionante l’analogia di fatti, situazioni, descrizioni e tragedie con quanto avviene oggi con i “clandestini” che arrivano da un altro sud, il sud del mondo. Eppure bisogna che un anziano soccorritore alpino ripeschi dal suo vecchio baule dei ricordi quel ritaglio sgualcito perché ci si ricordi che eravamo noi, appena sessanta anni fa, o giù di lì, i “clandestini”. Eravamo noi quelli che scappavano all’arrivo della gendarmerie francese, eravamo noi quelli che morivano di stenti nel tentativo di attraversare le Alpi.

Il titolo The Milky Way, la Via Lattea, è tratto dalla rinomata zona sciistica omonima sulle Alpi Occidentali, spalmata tra l’Alta Valle di Susa e Montgenèvre, proprio sul confine con la Francia, terra promessa per tante persone che di notte tentano di attraversare a piedi quelle piste dove di giorno ci sono persone che si divertono a sciare. Sotto questo punto di vista l’orgoglioso motto della stazione “Sciare senza confini”, suona come una beffa amara e tragica.

Questo è il secondo lungometraggio di Luigi d’Alife, un calabrese di trentaquattro anni che si è fatto le ossa, registicamente parlando, in un posto scomodo come solo il confine turco/siriano può essere, con Binxêt – Sotto il confine, il suo primo documentario del 2017. D’Alife sa entrare in empatia con le presone e questo lavoro ne è la prova. Si rivelano infatti l’antico orgoglio occitano degli abitanti della Alta Valle di Susa, memori di quando la montagna era tutt’altro che un confine, bensì una cerniera che univa valle con valle e dove, esattamente come in mare, nessuno si lasciava morire; si confessano anche gli immigrati di oggi, che mai andrebbero via dai loro Paesi se non fossero luoghi per loro invivibili, luoghi dove i fieri mentori di quel “aiutiamoli a casa loro” non hanno mai avuto il coraggio nemmeno di metterci un piede.

Immigrati che nemmeno andrebbero via dall’Italia se qui lo Stato non li considerasse solo un “prodotto”. “Prodotto”, così dice il giovane maliano che in tre anni di campo profughi in Italia non ha avuto la possibilità di studiare, né di lavorare, né di recuperare la sua dignità. Spera che sia meglio in Francia, dove almeno parlano la sua lingua. Nell’andirivieni si staglia, fisso, instancabile, ininterrotto e collettivo, il lavoro dei molti maraud, i “disubbidienti” che soccorrono e rifocillano i fuggiaschi, nonostante sia vietato. Come se fosse possibile vietare di essere umani.

Questo interessante e veloce documentario attraversa i meravigliosi scenari delle montagne piemontesi, offre molti spunti di seria riflessione e anche una pregevole parte di animazione. Finanziato grazie a una campagna di crowdfunding cui hanno contribuito più di 450 persone, non ha un distributore ma viene portato in giro dal regista e dalla sua troupe, anche su inviti.

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