Il 1968 non è stato proprio il periodo più tranquillo per la Cecoslovacchia, tanto più per i professionisti dai saldi principi come il notaio Vaclav, che gode di un rispetto e di un’autorità sconfinati nella cittadina di provincia in cui vive, ma deve ovviamente vedersela con il “sistema”. I problemi per lui e la sua famiglia si fanno più seri dopo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, quando la pressione e la persecuzione da parte del partito comunista diventano insopportabili.

Beata Parkanova è una giovane regista ceca, che quest’anno rappresenta degnamente il suo paese nella sezione competitiva principale qui a Karlovy Vary, dopo aver esordito nel 2018 sulla lunga distanza con una riflessione amorosa passata nel concorso secondario (Moments). Un “upgrade” meritato, visto che la storia incentrata su dignità, difesa dei propri valori morali e lotta contro l’oppressione comunista narrata in questo La parola colpisce per la tenuta drammaturgica, l’uso molto intelligente di un gruppo di attori vario e talentuoso (per quanto non troppo noti neanche in patria), e sorprende anche per certe soluzioni registiche non del tutto scontate, atte a introdurre una continua e palpabile tensione all’interno di un contesto potenzialmente sereno.

Nell’incipit siamo nel 1968, in quel dorato intervallo di pluralità e diritti in cui la dirigenza di Dubcek sta cercando di liberare la Cecoslovacchia dall’oppressione di una interpretazione censoria e dirigista della politica: il notaio Vaclav Vejir dispensa saggezza ed esperienza in una scena magistrale che prepara lo scacchiere morale ed antropologico entro cui i personaggi si muoveranno. Egli dimostra infatti come con le giuste parole, con la conoscenza della retorica argomentativa e con il prestigio accumulato in anni di specchiata professione si possano pacificare anche i litiganti più acerrimi. O tenera a bada i propri nemici.

È un personaggio, quello creato dalla Parkanova, modellato sulla figura di suo nonno, che similmente svolgeva la propria professione nella provincia del paese e similmente fu messo sotto pressione dal regime comunista per una sua certa “indifferenza” alla politica. Ugualmente, anche la figura femminile principale, la volitiva e un po’ invadente moglie del notaio, sembrerebbe riprendere piuttosto fedelmente i tratti comportamentali della austera nonna della regista.

Con l’invasione dell’agosto ’68 il rifiuto del notaio Vaclav di compromettersi con il partito comunista (che aveva mandato al patibolo tanti innocenti e che ormai non godeva più di alcun rispetto da parte della popolazione) gli verrà però fatto pesare dalla nuova dirigenza filo-sovietica: inizia così la seconda e più problematica parte della vita dei protagonisti, con il notaio che si sente messo sotto pressione per il suo ripetuto diniego ad entrare nel partito per motivi di pura facciata, e sua moglie, una sorta di rigida sacerdotessa dell’ordine casalingo che all’inizio sembra essere una minaccia per l’equilibrio mentale del protagonista, ma che invece si rivelerà una autentica e fedele compagna di lotta.

Quello che vediamo da lì in avanti è un dramma intimo e una lotta per la sopravvivenza che si svolge in primis nella mente del protagonista: perseguitato psicologicamente dall’impossibilità pratica di salvaguardare contemporaneamente il proprio equilibrio vitale-lavorativo e la propria coscienza, lo vediamo scivolare sulla china della depressione e quasi della pazzia, con procedimenti che ricordano certi stilemi di horror mentale alla Cronenberg o Lynch, se vogliamo, e una regia che apre squarci di inquietudine nell’apparente calma degli ambienti familiari. La “parola” del titolo diventa quella data alla propria coscienza, la promessa fatta a sé e ai propri cari di non scendere a patti con il regime per il solo fine di salvaguardare la tranquillità economica. La parola è anche, d’altra parte, quel “sì” che gli insistenti emissari del Partito vorrebbero strappargli con sempre maggiore insistenza e con minacce sempre più pressanti, di modo da omologare, “omogeneizzare” anche il notaio nel consenso obbligatorio della Cecoslovacchia degli anni Settanta e Ottanta, quando per fare carriera era necessario sottoscrivere, che ci si credesse o meno, documenti piuttosto imbarazzanti, come l’approvazione ufficiale dell’invasione che sentiamo risuonare anche in questo film. La Parkanova riesce ad illustrare in modo metaforico e universale il meccanismo concreto del rifiuto opposto al conformismo politico, lavorando sulle linee semantiche e analitiche della fedeltà alla propria coscienza, dell’orgoglio personale, dell’unità familiare e della capacità (o incapacità) di scendere “comodamente” a patti con il regime di turno (come per esempio fanno, senza grossi problemi, i cognati dei protagonisti).

Quello di questo semplice, amorevole impiegato dai saldi principi diventa così una sorta di “case study” per il dissenso sotterraneo, non urlato, quotidiano, che nei regimi pseudo-socialisti come quello cecoslovacco ha segnato sicuramente la vita di centinaia di semplici cittadini che non hanno avuto una ribalta e un impegno diretto come il futuro presidente Havel, o una morte tragica come il filosofo Patocka (estenuato dagli interrogatori della polizia comunista), ma che pur tuttavia hanno dovuto far fronte, con una ferrea volontà e con perdite più o meno gravi inflitte alle loro esistenze, allo stillicidio delle untuose offerte, richieste e pretese del potere. Credete alla mia…parola, Beata Parkanova è una regista di talento, il film merita molta attenzione e speriamo di vederlo anche in altri festival.