Seguito spirituale del dramma a episodi Twelve Nights (2000) che aveva inaugurato la carriera della regista e sceneggiatrice Aubrey Lam, Twelve Days rappresenta un’analisi altrettanto misurata e raffinata della vita coniugale che, procedendo per dissezione, riesce a risalire alla radice profonda del malessere che accompagna la coppia protagonista, rendendo al contempo giustizia alla complessità della psicologia di entrambi i sessi.
Da quel fantomatico primo appuntamento, consumatosi tra un bar e un cinema di periferia pur di trovare riparo dal tifone, ne è passata di acqua sotto i ponti e Jeannie – Stephy Tang, cantante e volto di riferimento della commedia hongkonghese degli ultimi vent’anni – e Simon – Edward Ma, attivo soprattutto nel panorama action di HK, come pure nelle immancabili commedie romantiche – faticano a trovare un equilibrio, sempre più precario man mano che gli anniversari di matrimonio si succedono. Nel corso degli anni, il disinteresse di lui per Jeannie, in secondo piano non solo rispetto al lavoro ma anche ai passatempi, si fa tale da portarli prima a vivere separati, e poi a un passo dal divorzio. Ma la forza dell’abitudine si rivelerà più forte del disincanto.
Sulla scia del capolavoro riscoperto di Ingmar Bergman Scene da un matrimonio (1973), di cui a Venezia78 abbiamo potuto apprezzare il reboot a opera dell’israeliano Hagai Levi, Lam si misura nuovamente con uno degli ultimi riti di passaggio sopravvissuti fino alla nostra epoca, soffermandosi sulla valenza sociale e collettiva che esso assume nell’alta borghesia della regione a statuto speciale, in cui la reciproca influenza con la mentalità occidentale – da cui, almeno in teoria, dovrebbe discendere una maggiore apertura verso i ruoli di genere e la divisione tra lavoro e affetti – sembra ormai solo un ricordo del passato, riportando Hong Kong in linea con gli standard del resto dell’Asia Orientale, dove la peer pressure e lo stigma della solitudine portano diversi giovani adulti a compiere il grande passo con forse troppa avventatezza.
Infatti, per quanto i primi due episodi – si tratta appunto di dodici giorni, estrapolati anche a distanza di diversi anni l’uno dell’altro – possano trarre in inganno, ricordando nella fotografia e nei costumi la patinatura tipica di alcune fortunate commedie rosa dell’industria locale – basti pensare alla trilogia di Pang Ho-cheung conclusasi nel 2017 con Love Off the Cuff, o ancora all’iconico Love Me, Love My Money (2001) di Wong Jin –, Lam prende subito le distanze dai toni leggeri della tradizione cui fa riferimento, riportando la sua pellicola su binari più consoni a quelli della United Filmmakers Organization (UFO), la casa di produzione attiva fino al 2015 dove la stessa Lam ha avuto occasione di farsi le ossa come sceneggiatrice negli anni Novanta – e impostasi nel panorama cinematografico dell’isola proprio grazie al tocco introspettivo dei suoi film di genere.
Adottando uno sguardo femminile, ma che riesce a dare spessore anche alla controparte maschile senza cedere alla tentazione manichea di voler individuare un “cattivo” all’interno della relazione, Lam riesce per l’appunto nel difficile compito di raccontare l’incomunicabilità e il disprezzo, il cui canale di comunicazione è perlopiù non verbale. Ne consegue che Twelve Days si configuri come un film di spazi (vuoti) e corpi ancor prima che di parole, con gli appartamenti affittati di volta in volta dalla coppia – o da Jeannie e Simon da single, quando le cose si complicheranno – a testimoniare del loro progressivo allontanamento, con la macchina da presa a cercare continuamente la profondità di campo, spostandosi da un piano all’altro nel disperato tentativo di racchiudere nella stessa inquadratura due soggetti che raramente occupano la stessa dimensione del profilmico, come se il loro stare insieme fosse niente più che una mera convenzione – al punto da richiedere l’intervento ordinatore della mdp per ritrovarsi.
Nel complesso, più che un passo avanti Twelve Days sembra una riconferma dei temi centrali della poetica di Aubrey Lam, la cui autorialità, se mai fosse stata messa in discussione da alcune fatiche più “di cassetta”, ritrova qui forza espressiva. Peccato per la struttura forse troppo condensata, ma si tratta senza dubbio di un ritorno gradito, e che lascia ben sperare per le riflessioni sui rapidi cambiamenti della Hong Kong post-handover a cui, si spera, l’autrice vorrà dare ulteriore corpo nei prossimi anni.