Tratto dal primo romanzo di Guy de Maupassant, Une Vie torna in versione cinematografica attraverso la rilettura di Stephan Brizé. Solcando l’800 post rivoluzionario, la ricca e bucolica famiglia di Jeanne vive una parabola non dissimile a quella di tante famiglie aristocratiche cadute in rovina. Negli anni, la gradevole vita di campagna – anche se per diletto, ora la nobiltà si permette di coltivare un piccolo orto privato nella residenza estiva – si trasforma presto in una via crucis sentimentale.
L’attrazione filmica per i grandi classici della letteratura europea è inesauribile. Sono un patrimonio universale e parlano una lingua comune (quantomeno per noi occidentali). I più riusciti raccontano storie che riescono ad andare al di là del tempo in cui sono scritti e ambientati. Così, l’epopea emotiva di Jeanne, nelle mani del sensibile termometro sociale di Stephan Brizé, potrebbe facilmente diventare lo specchio di deriva contemporanea in cui l’egoismo e l’egocentrismo (prevalentemente maschile) divorano sentimenti e buoni propositi.
Ma l’autore di La legge del mercato sceglie la via del rigore, della purezza (estetica, in primo luogo). Le metafore attuali sono nell’occhio di chi guarda, mentre ritmicamente l’anima fragile di Jeanne viene corrotta dai vizi terreni – degli altri – e da quella che, semplicemente, è la vita. “Tutti mentono”, scoprirà fin da giovanissima la protagonista. Mariti, genitori, figli: è la natura umana. Per une vie Jeanne cade e si rialza, affronta terremoti esistenziali, perdite, ferite, disillusioni. Ancora, di nuovo; e poi ancora, fino alla fine. Dopo quasi mezzo secolo di tormenti apparentemente insuperabili – vissuti comunque, per larga parte, nell’agio della sicurezza economica (solo i ricchi possono permettersi queste tragedie sentimentali) – Jeanne resta comunque attaccata alla vita.
Une Vie è un film compattissimo e blindato attorno alla sua costruzione pianificata in ogni dettaglio. L’incedere sincopato di drammi, stagioni, sofferenze e – rare – gioie accusa proprio questa impenetrabilità che rischia di rendere il film tanto perfetto quanto algido. Una cantilena emozionale tanto ipnotica quanto ripetitiva intenta a crogiolarsi troppo spesso nella purezza delle immagini in formato 1,33:1.
L’emaciata e brava Judith Chemla (Jeanne), tra le scogliere della Normandia e le fronde secche battute dal vento è un corpo vessato dagli avvenimenti che si piega, ma non si spezza. Almeno fin tanto che lo spettatore è disposto a rivivere une vie saldamente ancorata nel nobile romanticismo ottocentesco.