Damiano Michieletto fece due regie di Rigoletto, una per Amsterdam nel 2017 e una per il Circo Massimo di Roma nel 2020. La versione olandese, ripresa a Venezia da Eleonora Gravagnola, guarda oltre il Mincio. Il principio sta infatti nella fine, quando il Gobbo scopre che nel sacco non c’è finito l’odiato Duca, ma la figlia amata. Il buffone è rinchiuso nello spazio asettico di una camera di manicomio – muri, porte bianche e un’inferriata, la scena fissa creata da Paolo Fantin sapientemente illuminata da Alessandro Carletti. L’azione, più allucinazione che ricordo, rivive attorno all’onnipresente Rigoletto, combattuto tra il fantasma di Gilda e il suo doppio senza volto. I personaggi, per lo più tutti in bianco nei costumi di Agostino Cavalca, entrano ed escono attraverso squarci di muro che si aprono e si chiudono proprio come fa la memoria umana.
In questo continuo lavoro di introspezione ed analisi, l’ottimo video design di Rocafilm (viedoproiezioni di Ideogramma) fa della scena lo schermo attraverso cui conoscere l’infanzia della misera, in un bianco e nero mozzafiato degno del miglior Bergman. Segregata fin da piccola in una stanzetta con le sbarre alla finestra, impegnata a esorcizzare tramite il disegno l’assenza di una madre mai conosciuta, la figlia di Rigoletto è vittima non solo della foga sessuale del Duca, ma soprattutto di un padre-padrone che le impedisce di diventare donna. Stufa di cullare i peluche, Gilda capirà che l’unica via di fuga è sacrificarsi nella locanda di Sparafucile. I dettagli del fare teatro di Michieletto, ormai veri topoi della sua produzione, sono davvero numerosi. Michieletto confeziona uno spettacolo curatissimo in ogni minima sfumatura, forte di una coerenza drammaturgica convincente, con buona pace di quelli del “Povero Verdi”. Michieletto crea una tensione costante tramite una regia al cardiopalmo, arrivando a scuotere le corde più intime. Basti pensare al “Cortigiani” cantato dal baritono solo in scena, circondato dai disegni colorati della bimba, momento ricco di pathos. Che dire del finale “liberatorio” dove il sorriso di Gilda bambina vince sulla morte? La tradizione, come diceva Mahler, è mantenere acceso il fuoco, non adorare le ceneri. Michieletto è uno dei pochi che da tempo l’ha capito.





Anche Daniele Callegari fa della tradizione un fuoco sempre vivo, epurandola da quella leziosità di maniera che spesso si sente in edizioni più retrive. Callegari sa enfatizzare le sfumature più sottili della partitura, dando spazio sia alla bellezza lirica che alla potenza drammatica richiesta, al netto dei tempi troppo veloci nel primo atto. L’orchestra ha risposto con precisione e grande coinvolgimento, sottolineando le tensioni emotive e psicologiche dei protagonisti.
Nel ruolo eponimo Luca Salsi, Rigoletto più uomo che buffone come vuole Michieletto, tutto giocato su passaggi di volume magistrali e uno splendido fraseggio. “Cortigiani” strappa un lungo applauso, meritato per la precisione con cui sa rendere le tribolazioni di un padre beffato. Maria Grazia Schiavo affronta brillantemente la parte della giovane combattuta tra l’affetto per il padre e l’aprirsi al mondo, graziosa nel fraseggio e abile nella coloratura. Ivan Ayon Rivas è un Duca corretto, ma ancora legato a vezzi d’uso che poco appartengono a Verdi. Lo Sparafucile di Mattia Denti si distingue per eleganza e fredda lucidità, mentre la Maddalena di Marina Comparato punta su un’esuberanza lasciva che si accompagna bene alle bordate del Duca. Precisi la Giovanna di Carlotta Vichi e il Borsa di Roberto Covatta. Gianfranco Montresor è Monterone determinato e scenicamente autorevole. Bene anche Armando Gabba come Marullo e Matteo Ferrara come Ceprano. Rosanna Lo Greco è contessa di Ceprano puntualissima nel brevissimo duettino. Completano il cast l’usciere Nicola Nalesso e Sabrina Mazzamuto, un paggio della duchessa.
Il coro, preparato da Alfonso Caiani, assolve degnamente il ruolo di cortigiani lubrici e disumani.
Pieno consenso generale alla replica del 25 febbraio.
Luca Benvenuti