Don Giovanni torna al Teatro La Fenice di Venezia fino al 30 giugno per ben dodici recite. L’allestimento, firmato Michieletto-Fantin-Teti, è del 2010, già vincitore al suo debutto del Premio Abbiati per le scene e i costumi e dell’Opera Award. Riproposto più volte negli anni, si conferma una produzione di punta della fondazione veneziana.
Gioiello dal valore intramontabile, il Don Giovanni di Damiano Michieletto è divenuto un classico che non stanca mai come lo smoking nelle serate di gala. Per il regista, fine conoscitore dei sentimenti umani, il libertino è il polo magnetico verso cui tutti sono attratti e senza il quale la vita perde di senso. Del seduttore per antonomasia, insensibile Unheimliche freudiano, si parla anche quando è assente. Michieletto concilia sapientemente tragico e comico, unendo alla forte ma mai eccessiva vena erotica un’originalità narrativa che caratterizza adeguatamente i differenti protagonisti, marionette ormai consumate dai “cento affanni e cento”. La stupenda scenografia girevole ideata da Paolo Fantin è fatta di pareti roteanti, stanze semivuote in cui non filtra mai la luce naturale e da cui non c’e scampo, porte sbattute alla spasmodica ricerca del perfido. Spazio che, per metafora, diventa la gabbia dell’amore, sempre che di esso si possa parlare, o meglio il simbolo dei labirintici autoinganni che la mente partorisce. In questo contesto, il light design di Fabio Barettin crea suggestivi giochi chiaroscurali sulle tappezzerie settecentesche, ove i corpi proiettano le loro ombre giganti. I costumi di Carla Teti sono classici, volutamente slavati, quasi impregnati dai diversi umori organici.
Jonathan Webb opta per una lettura della partitura piuttosto ordinaria, senza strabilianti innovazioni. Il suono che ricava dall’orchestra è pulito e asciutto, anche nei momenti più concitati dei concertati e dei finali d’atto, ma manca un’idea di base che si discosti dalla semplice routine.
Il primo cast si rivela davvero affiatato e più che valido. Don Giovanni di gran levatura quello di Alessio Arduini, dal particolare fascino erotico, a suo agio sia nel registro grave che acuto, dal fraseggio variegato e padrone di un ottimo controllo della voce. Lo affianca egregie Omar Montanari, Leporello disinvolto, frutto di un’esperienza consolidata. Juan Francisco Gatell è Don Ottavio all’altezza delle arditezze tecniche richieste da Mozart. Sfoggiando acuti sicuri, buona intonazione e omogeneità vocale, valorizza appieno una parte che altri spesso rendono anonima e dimenticabile. Il tormentato Masetto di Wiliam Corrò possiede una linea di canto sontuosa e omogenea. Ancora una volta Attila Jun interpreta il Commendatore, vibrato ma imponente.
Carmela Remigio torna nei panni dell’isterica Donna Elvira. Perfetto il lavoro fatto sul personaggio quanto quello sulla voce, matura e disinvolta nel fraseggio come nel gesto espressivo. Dà il meglio di sé in “Mi tradì quell’alma ingrata”, momento in cui la scena gira vorticosamente su se stessa. Gioia Crepaldi sostituisce Francesca Dotto, indisposta la sera della prima per motivi di salute, nel ruolo di Donna Anna, l’incarnazione dell’inquietudine che nasce dal non detto, dalla dissimulazione nei confronti di Ottavio e dalle malandrinate compiute con Don Giovanni nella sua stanza. Crepaldi la ritrae ottimamente grazie a una voce corposa, non priva però di un leggero vibrato e qualche limite nelle agilità di “Or sai chi l’onore”. Magnifica la Zerlina di Giulia Semenzato, abilissima nel coniugare l’ingenuità con la malizia e dotata di una voce elegante, impiegata con grande intelligenza e padronanza tecnica.
Bene il Coro, preparato da Claudio Marino Moretti.
Successo per tutti alla prima del 18 giugno, con particolari apprezzamenti per Gatell, Arduini e Remigio. La serata è stata dedicata alla memoria di Peter Maag nell’ambito del centenario della nascita promosse dal Fondo Peter Maag.
Luca Benvenuti