La musica classica, si sa, è ostica per definizione. Rintanata negli angoli più bui e meno ventilati dei negozi di dischi, confinata in casa fra i vinili polverosi che il nonno ci ha lasciato in eredità, è quanto di meno appetibile il mercato possa proporre ai giovani, specialmente a quelli con tre «gggì». Per non parlare della classica contemporanea, saccheggiata dal cinema (nell’INLAND EMPIRE di Lynch, Penderecki ha defenestrato il fido Angelo Badalamenti) che ne coglie solo il lato inquietante, esoterico, rumoristico, «d’atmosfera». Sai che noia.
Mentre in piena estate impazza il Festivalbar, a rigor di logica nessuno si metterebbe ad ascoltare Boulez, Varèse o le quadrifonie di Stockhausen. E se anche esistesse un simile ascoltatore, soltanto un colpo di caldo, con il conseguente sopraggiungere di demenza senile anche in età non sospetta, lo porterebbe ad ancheggiare e scuotere i glutei al suono stridente dei suddetti compositori.
Chi compie questo ragionamento e lo ritiene fondato, evidentemente non conosce il nuovo album (o meglio, la nuova «operazione») dei Batisto Coco, capitani coraggiosi della musica latino-veneziana. Basato, udite udite, proprio su pezzi di classica contemporanea e non, Acqua alta è un disco salsa accattivante, ironico, sferzante, con qualche stilla di veleno da spruzzare qua e là, ma mai a caso.
Come scrive Robert Piencikowski nell’introduzione al disco, i Batisto Coco «si cimentano col genere secolare della parodia, in gran voga a Venezia nei secoli XVII e XVIII, in seguito alla commercializzazione del melodramma». Una tradizione tutta veneziana, insomma, per ribadire ancora una volta l’appartenenza alla città lagunare (e a tutti gli effetti, anche per i temi trattati, questo sembra essere l’album più «veneziano» dei Batisto) con un obiettivo di respiro internazionale: costruire un disco a partire da opere di Cage, Varése, Milhaud e Debussy significa cogliere in patria i frutti nati da radici sparse in giro per il mondo.
Il tutto allo scopo di ribadire, fra un controtempo e l’altro, un concetto fondamentale: la Venezia «crocevia di culture» si trova oggi essa stessa al crocevia, e completamente svuotata di cultura.
Lo cantavano anni fa anche i Pitura Freska (e speriamo che i Batisto gradiscano l’accostamento: coi paragoni fra autoctoni è meglio non scherzare): «Col modeo capitaista / femo i schei sora el turista / ma cussì sensa cultura / me sa tanto che no la dura» (Ridicoli). Si legge dunque in Acqua alta, senza nemmeno sforzarsi di andare a scrutare tra le righe, un’urgenza, una vera e propria emergenza: alzare il tiro, giocarsi tutto sulle cose importanti, rischiare vita e carriera per amore dell’arte, della musica, della città. Compito dell’artista, dunque, non è tanto ritrovare o riscoprire la cultura veneziana, quanto reimpiantare la cultura a Venezia. Perché la città lagunare, elitaria, esosa, svenduta ai Cinesi, priva di cinema e abitata da «peoci refai» (intraducibile: il «peocio» è la tipica figura del veneziano povero che vive di espedienti, il verbo «refarse» significa darsi una scossa, farsi una posizione), sta vendendo l’anima al diavolo, e attuando il paradosso culturale per cui «l’artista no guadagna» e «chi no lavora magna» (Belzebù).
Il titolo del disco riassume l’anima del discorso «politico» dei Batisto Coco: il fenomeno dell’acqua alta, che è fonte di cartolinesca meraviglia ed attira milioni di turisti da spennare, nella realtà contribuisce a far sprofondare Venezia, città indecisa fra l’essere (e il sopravvivere) e l’apparire («Lo femo o no lo femo ‘sto Mose benedeto? / Mi no che no speto che la me riva soto el leto!», cantano in Ghe xe tuti che dise, e al di là delle opinioni sui metodi di contenimento delle maree, la metafora è azzeccatissima).
Altrove, dove l’anima del disco si alleggerisce, esplode la parodia evocata da Piencikowski: Strawinksy fa i conti con l’impotenza ne El viagra de la Primavera; Darius Milhaud si ritrova letteralmente tradotto nella travolgente Na vaca sora i copi; il tema della Gymnopedie n.1 di Satie emerge fra le rime struggenti di Barena; Schönberg offre l’assist per l’onirica Omar rumba dedicata, così come l’intero album, allo scomparso Omar Caenazzo; e ancora Golliwogg’s cake-walk di Debussy diventa un mambo, e tutti i parodiati, ai quali vanno aggiunti John Cage, Boulez e Varèse, si ritrovano citati in un gioco di omaggi nell’originale Who?. Chiude il disco Salsa mudanda, ed è evasione totale, musica popolare. In fondo, chiunque si merita una fuga momentanea dai problemi del mondo: basta una passeggiata in spiaggia, «mudande soto ‘l scagio». Strepitoso.