Non so dire se la scrittura di Terzani sia davvero come la legge Franco Molè, così arrabbiata, secca, risentita. Difficilmente la concilio con la voce flebile del vecchio Terzani che ho conosciuto, ancora tagliente come una lama, ma sottile come qualcosa che si sta spegnendo. Quel che si può dire è che la sua scrittura senz’altro è descrittiva, precisa, a volte elencatoria, spesso ironica, non di rado sottilmente sarcastica, sempre potente. E che difficilmente nelle sue pagine si può rintracciare uno stile poetico. Eppure questa drammatizzazione fa pensare.
Lette da questa distanza, dentro una storica e azzimata sala dell’Ateneo Veneto, le sue parole acquistano un sapore del tutto diverso: quello che era documento diventa racconto, e quella che era realtà filtrata attraverso gli occhi di un giornalista è ulteriormente sminuzzata nell’adattamento recitato. Il rischio maggiore è che, di filtro in filtro, la realtà un tempo vissuta divenga solo una scusa per mistificare. La messa in scena di questa sera è rimasta in quest’equilibrio rischioso.
Parto dalla considerazione che quella di Terzani è una letteratura giornalistica di reportage; per gli usi, ma anche per la forma, la si può anche definire semplicemente letteratura di viaggio, che, coerentemente, in viaggio richiede d’essere letta. Non è scrittura per teatri. Gli autori però hanno fatto qualcosa d’interessante, e di furbo, forse: ne hanno ricavato una drammaturgia.
Da tempo Angela Terzani Staude, moglie e compagna di una vita di Tiziano, si muove su due fronti: quello che la vede custode della memoria e dell’agiografia del marito, assieme al figlio Folco, e quello del rispolveramento di vecchi diari dei suoi Giorni cinesi e Giorni giapponesi. Dalla contiguità tra alcune pagine dei primi e le parole della Porta proibita di Terzani s’è sviluppato un dialogo che ricostruisce il percorso loro e dei loro due figli in Cina nei primi anni Ottanta. Un percorso che ha quattro tappe: studio-illusione (generazionale per l’epoca) di trovare il Paradiso nella Cina di Mao; arrivo nella Cina di Deng e disillusione per la distruzione sistematica di ciò che la Cina era stata per millenni; riscoperta dell’umanità dei “piccoli” cinesi: quello che si era perso nel macrocosmo politico lo si ritrovava intatto nei mercati e nelle lotte dei grilli e nei canti degli uccellini; arresto, “rieducazione” e espulsione di Tiziano dalla Cina.
Le due voci raccontano gli stessi eventi, come parlandosi, ma mentre dello stile di Terzani s’è detto, quello di lei ha l’aria di voler essere letterario a tutti i costi: è più intimo, ma risulta limaccioso; vorrebbe essere poetico, ma è più faticoso, e questa fatica è restituita appieno dall’incerta lettura di Andrea Jonasson.
Ma il fastidio che provo nasce anche dalla gelosia per la mia lettura delle pagine di Terzani, e dalla frequentazione con l’Oriente: basta invece guardarsi intorno per capire che quello che è successo oggi lascerà un qualche segno. È infatti significativo che ad ascoltarlo stipate in questa sala si trovi-no persone di tutte le età, dai giovani che l’hanno conosciuto già col barbone bianco da predicatore degli ultimi anni quando parlava di pace per le piazze italiane seduto nella posizione del loto, inveendo contro la sua “innominabile concittadina”, il Terzani delle Lettere contro la guerra, gli stessi giovani che la Cina ormai la conoscono da troppi film e libri e articoli fioccati in questi anni, fino a quelli che l’hanno conosciuto molto prima, coi baffi brizzolati, che raccontava di un Oriente ancora lontano ma mai orientaleggiante con i suoi articoli sul Der Spiegel e su vari quotidiani italiani, e le copertine kitsch dei suoi libri che Longanesi vendeva come il pane.
Ed eccoci qua tutti insieme: Terzani ha smesso per sempre di viaggiare e noi siamo qua a ad ascol-tare le sue parole che si muovono ancora. Anche se già allora, purtroppo, parlavano di un mondo scomparso.