“IO SONO L’AMORE” di Luca Guadagnino

Fate l’amore con il sapore

A casa dei Recchi, famiglia di ricchissimi industriali del tessile, si festeggia il compleanno del patriarca (Gabriele Ferzetti) nel giorno in cui il giovane Edo (Flavio Parenti) viene battuto in una gara da un cuoco, che diventa presto suo amico. I due progettano di aprire un ristorante, ma nel frattempo lo stesso cuoco scatena la passione di Emma (Tilda Swinton), madre di Edo. Gli eventi avranno esiti tragici e liberatori.

Ne L’alveare, l’ultimo film di Tekla Taidelli, regista punk milanese, c’è un cuoco anarchico che fa la sua lotta di classe preparando per i facoltosi clienti del suo catering piatti cucinati con cibo per cani e pesci siluro pescati nel Naviglio. Anche il cuoco che troviamo in Io sono l’amore, (Edoardo Gabbriellini) arriva dalle classi basse (ma, a dire il vero, la sua esatta provenienza sociale non è ben definita), si confronta con le classi alte e la sua azione avrà effetti destabilizzanti su queste ultime. La sua azione è però ben diversa da quella dell’anarchico della Taidelli. Antonio, il cuoco del film diGuadagnino, cerca l’“essenza dei sapori” e prepara piatti elaborati da Carlo Cracco (lo vediamo, ad esempio, all’opera con la fiamma ossidrica per preparare l’insalata russa caramellata, celebre entrée del cuoco stellato milanese).

La vicenda si muove tra due polarità. Antonio rappresenta la verità, l’onestà, la Natura, l’apertura verso l’altro, il potere rivoluzionario dell’amore, del “corpo amoroso” per citare un titolo del popolare filosofo, o filosofo popolare, Michel Onfray. All’opposto, la famiglia Recchi rappresenta l’Ordine, l’ingabbiamento della vita nei riti che obbligano gli individui in ruoli prefissati (il segnaposti che domina le prime scene del film), la riduzione dell’altro “a un nemico, un avversario, una differenza da sopprimere, costringere e sottomettere” (per usare ancora le parole di Onfray), come risulta chiaro dalla concezione agonistica delle relazioni umane che emerge dalle discussioni iniziali sulla gara. Alcuni personaggi – Edo, Emma, Elisabetta – si trovano combattuti tra queste due polarità e ciascuno di loro risolverà in diverso modo tale lotta.

Gli ambienti, gli spunti narrativi e i temi de Io sono l’amore riportano alla memoria molte cose, cinematografiche e non: L’amante di Lady Chatterley, Teorema, La caduta degli dei e I Buddenbrook, Cronaca di un amore. Sfortunatamente, alla memoria ritornano anche altre cose: guardando la scena decisiva in cui Emma assapora le ricette del cuoco con espressione estatica è difficile non farsi tornare alla mente gli sdilinquimenti orgasmici che le pubblicità di yogurt, mozzarelle, gelati e quant’altro ci hanno proposto nel corso degli anni. E la passione di Emma si porta dietro per tutto il film questa associazione di idee (che la rende un po’ fasulla).

Presentato a Venezia, Io sono l’amore ha suscitato reazioni opposte, dal sarcasmo (le cronache festivaliere registrarono qualche fischio), all’esaltazione (“Variety”, per dirne uno, gli ha dedicato grandi elogi). È possibile darne una valutazione più equilibrata, cercando di considerare sia i pregi del film, sia le sue debolezze? Ci proveremo partendo da queste ultime.

Anzitutto, il film vive di una fondamentale ambiguità (in parte, probabilmente, voluta e cercata). Da un lato, esibisce, ed esalta, lusso e bellezza. Lusso e bellezza che si pongono a modello inarrivabile, che susciti ammirazione, e invidia, in chi quel mondo lo vede solo dall’esterno (chi, per dire, al ristorante di Cracco non ci può andare, se non come follia “una volta nella vita”). Dall’altro, su questo mondo dorato appiccica, in modo ultra-didascalico, un giudizio moralistico e un’interpretazione da bignami del pensiero no global (ci riferiamo al dialogo in fabbrica che rivela l’ipocrisia della borghesia e alle parole dell’indiano che enunciano apertamente l’ideologia del Capitale).

Insomma, i riti con cui la borghesia rappresentata nel film costruisce se stessa e la propria differenza dal resto del mondo sono da un lato ostentati, dall’altro giudicati “dall’esterno” con quei giudizi didascalici. Più interessante sarebbe stato provare a “smontarli” dall’interno. Per esempio, tutta la retorica del cibo e dei grandi cuochi trasformati in maître à penser è parte di questi riti, che il film non prova a smontare, ma anzi avvalora, in nome dell’ostentazione del lusso e della bellezza di cui si diceva. Che i cuochi amino pensarsi come più vicini all’essenza della vita rispetto ai comuni mortali, o come depositari di una sapienza superiore è un conto, che lo siano davvero è un altro. Il film, in nome di quell’esaltazione del lusso e della bellezza, sembra invece accreditare senza dubbio questa loro pretesa trasformandola in asse portante della vicenda – ma, si accennava prima, occorre un certo sforzo per credere che la signora si innamori del cuoco per le la sublimità delle sue preparazioni e che il cuoco rappresenti una concezione della vita radicalmente diversa rispetto a quella dei Recchi.

Oppure, le diverse forme che l’amore possono assumere non sono forse anch’esse una costruzione storica, che ha determinate precondizioni economiche e sociali? Ci pare che il film rimanga chiuso in contrapposizioni manichee e non sviluppi alcuni spunti che avrebbero messo meglio in luce la complessità dei personaggi. Per esempio, viene da pensare che a dar prova di maggior cinismo nel film non sia Tancredi Recchi, il marito di Emma (Pippo Delbono), tutto preso dagli affari, ma piuttosto Elisabetta (Alba Rohrwacher), in apparenza la più “disinteressata”. All’annuncio della vendita – vista dall’ingenuo Edo come segno di resa di fronte all’inumana impersonalità del capitale globale – lei risponde con aria indifferente “così diventeremo più ricchi”: insomma, pur essendo stata la prima a infrangere l’Ordine per seguire le passioni, si dimostra disponibile, più degli altri, a vivere sotto il segno della doppiezza (per non rinunciare ad agi e ricchezze, tiene segreta la relazione che non è in linea con le regole famigliari). In questa risposta di Elisabetta, e nella doppiezza che sottende, c’era la possibilità di uno sviluppo molto interessante, che però il film non approfondisce.

Al di là di queste considerazioni, per venire ad aspetti più terra terra, ci pare che qualche passaggio narrativo avrebbe potuto forse essere limato un po’ meglio: non è, ad esempio, un po’ semplicistico il modo in cui Emma scopre l’omosessualità della figlia? E, fra l’altro, sarà che non frequentiamo tanto l’alta borghesia, ma ci pare poco verosimile che la signora vada di persona in tintoria (tra l’altro, il tono colloquiale del discorso lascia intendere una frequentazione non sporadica del negozio). E, per concludere il cahier de doléances, le immagini di insetti e fiorellini che contrappuntano l’amplesso campestre tra signora e cuoco sono molto vicine al kitsch.

Ma, si diceva, Io sono l’amore ha anche molte qualità e, a tratti lascia persino ammirati. Una scena come quella dell’inseguimento per le strade di Sanremo è magistrale e da sola risolleverebbe qualsiasi film. Così come certi piani sequenza tra le scale e le stanze di villa Necchi Campiglio. Anche l’uso della musica merita una segnalazione: Io sono l’amore utilizza brani di John Adams, ma non ne fa un uso banalmente decorativo, o peggio riempitivo, come talvolta accade quando i film manovrano la musica di grandi maestri, ma li impiega con grande efficacia drammaturgica. E di notevole efficacia è anche il ritmo lento e avvolgente che Guadagnino riesce ad imprimere alla vicenda.

E allora, conviene forse guardare Io sono l’amore non come un film che ci dice qualcosa sulla vita, sulla società, ma unicamente nella sua forma cinematografica, quindi – per usare le categorie hitchockiane – non come “tranche de vie”, ma come “tranches de gateaux”. Non è un capolavoro, ma è sicuramente un film che merita di essere visto, perché ha diverse qualità da ammirare (stavamo dimenticando un cast eccellente, e insolito) e alcune debolezze che, nascendo da un progetto ambizioso, si prestano comunque a dar vita a discussioni interessanti.

Titolo originale: Io sono l’amore
Nazione: Italia
Anno: 2009
Genere: Drammatico
Durata: 120′
Regia: Luca Guadagnino
Cast: Tilda Swinton, Flavio Parenti, Edoardo Gabbriellini, Alba Rohrwacher, Pippo Delbono, Diane Fleri, Waris Ahluwalia, Maria Paiato, Marisa Berenson
Produzione: First Sun, Mikado Film, RAI Cinema
Distribuzione: Mikado
Data di uscita: Venezia 2009
19 Marzo 2010 (cinema)