“Il lavoro di vivere” di Hanoch Levin al Franco Parenti di Milano

Siamo tutti Gunkel

Considerato tra i più importanti drammaturghi israeliani, Hanoch Levin (1943-1999) è pressoché sconosciuto in Italia (e relativamente poco rappresentato al di fuori di Israele). Lo spettacolo che in questi giorni è in scena al Teatro Franco Parenti di Milano merita dunque un’accoglienza doppiamente favorevole: non solo perché si tratta di un lavoro di grande qualità, valorizzato da una regia intelligente, ma anche perché permette di fare una scoperta davvero interessante. La vasta produzione di Levin viene dagli studiosi ripartita in tre categorie: le pièce comico-satiriche (che spesso hanno suscitato forti controversie in patria), le commedie domestiche (incentrate su relazioni tra famigliari e vicini di casa) e i drammi mitologici (nei quali Levin ha rielaborato materiali provenienti da antichi miti e racconti biblici).

Il lavoro di vivere, uno dei suoi testi più rappresentati all’estero, è un esempio particolarmente riuscito di commedia domestica, probabilmente il filone della sua produzione più agevolmente fruibile e apprezzabile fuori da Israele. Yona, un uomo anziano, si sveglia in piena notte e inizia a guardare Leviva, la moglie che dorme. La paragona a un “pezzo di carne” e, confessando una irrimediabile lontananza nei suoi confronti, prima la sveglia bruscamente poi le comunica la sua intenzione di lasciarla. Da qui si sviluppa un dialogo tra i due che viene a un certo punto interrotto da un conoscente, Gunkel, arrivato a chiedere un’aspirina, o forse solo a curiosare nelle loro vite. L’intromissione di quell’uomo irrimediabilmente solo sembra riavvicinare i due anziani coniugi.

Quel che più colpisce in Il lavoro di vivere è la riuscita fusione di tragedia e ironia, di profondità e trivialità, la capacità di disegnare personaggi che hanno forti tratti di sgradevolezza ma che allo stesso tempo suscitano in noi tenerezza. I personaggi della pièce affrontano il necessario e inevitabile confronto che ogni essere umano si trova prima o poi a dover fare tra quel che è e quelli che erano i suoi sogni e aspirazioni. La regia colloca efficacemente lo spettacolo in uno spazio di dimensioni ridotte, nel quale il pubblico è posto su tre lati del piccolo palco, vicinissimo agli attori, separato, in alcune posizioni della platea, da tende veneziane che costringono a “spiare” quel che avviene in palcoscenico, come se si fosse vicini di casa dei due anziani coniugi. Mentre il sottofondo sonoro è costituito da tubature che perdono, si sente litigare gli altri condomini col sollievo dato dal fatto che sono, per l’appunto, altri a rovesciarsi addosso insulti e urla, ma con la consapevolezza di ritrovare in quelle urla e in quegli insulti un po’ di sé.

In questo spettacolo teatro e vita sembrano fondersi e il rispecchiamento tra palco e spettatori è motivo centrale. Leviva si rivolge al pubblico (“se vi siete divertiti, raccontate di noi alle altre anime che sono in cielo. Faremo di nuovo spettacolo allo stesso posto, alla stessa ora, ogni sera”) mentre i dialoghi che avvengono sul palcoscenico, riproducendo con implacabile “verità” una situazione “reale”, mostrano quanto teatro ci sia nella vita (Yona parla dei comportamenti della moglie con termini teatrali – “scena madre”, ecc. – come se obbedissero a un copione). Un teatro consunto, prevedibile (“ti leggo troppo bene” dice Yona alla moglie e varie volte ne anticipa le risposte, e lei, un poco più avanti, ribatte che “ti conosco come i miei calli”), nel quale ognuno, credendosi unico e speciale, deve prima o poi rendersi conto di quanto sia illusoria questa sua credenza. Ai protagonisti non resta altro che il riconoscimento – che la penosa (e comicissima) figura di Gunkel evidenzia – del bisogno di un’altra persona con cui condividere il peso del “lavoro di vivere”.

I personaggi di Levin – come scrive F. Rokem nell’introduzione a una antologia dei suoi lavori (H. Levin, The labor of life – Selected plays, Stanford university press, 2003) – ci respingono e ci attraggono allo stesso tempo. A respingerci e ad attrarci è il loro rapporto, complesso e tormentato, con l’onestà.

A momenti è Yona che si inganna, illudendosi di poter trovare qualcosa di diverso fuori dal rapporto con Leviva e quest’ultima lo ammonisce: “è inutile che scappi: ovunque tu andrai, porterai dietro te stesso”. Alla fine, invece, mentre Yona è crudelmente sincero con se stesso (“siamo tutti Gunkel”, “l’amore non c’entra, è solo la paura di essere soli nella notte”), Leviva usa parole consolanti che mascherano la realtà – “non stiamo a discutere sulle parole”.

Impegnati a cercare di definire i caratteri dei personaggi di Hanoch Levin (nome che ci auguriamo diventi più abituale sui nostri palcoscenici) non abbiamo ancora detto una parola sugli interpreti che li portano in scena – Carlo Cecchi, Fulvia Carotenuto e Massimo Loreto. La diciamo in conclusione: bravissimi.

“Il lavoro di vivere” di Hanoch Levin
Regia di Andrée Ruth Shammah
Con Carlo Cecchi, Fulvia Carotenuto, Massimo Loreto
Produzione Teatro Franco Parenti
Visto al Teatro Franco Parenti il 30 novembre 2014