A quattro anni di distanza dal difficilmente ascoltabile Hail to the thief, e a 8 dalla molto sopravvalutata svolta elettro-sperimentale, i Radiohead fanno un passo indietro – ma uno in avanti – e tornano a riabbracciare il rock con tocchi peculiari in questo settimo disco della band, che non cede di fronte alle idee compositive della band ma torna a stringere un forte contatto col pubblico e col coinvolgimento emotivo.
Anche perché, a furia di andare sempre oltre e cercare strade tanto astruse da sfiorare la fumisteria, la vena creativa del gruppo si era sensibilmente inaridita, nonostante i fans si sono sempre innalzati a difensori, accettando anche che il gruppo perdesse le proprie coordinate senza realmente trovarne delle altre. Invece in questo In rainbows, Thom Yorke e soci sono riusciti (come e forse meglio che in Kid A) ad adattare l’eclettismo un po’ isterico dell’elettronica e dell’invenzione a un gusto per la forma canzone che fa immenso piacere ritrovare.
Ed è proprio la componente melodico-armonica a essere l’arma vincente di questo disco, dove le ritmiche e il lavoro sui suoni non copre mai la struttura e l’interpretazione del gruppo, elementi già riconoscibili nell’iniziale 15 step, dove il tambureggiare ossessivo dei bassi techno si fonde con la voce melliflua di Yorke nel tentativo (vano, però) di replicare la bellezza di Idioteque. Il resto però viaggia molto bene, su coordinate nuove e sicure a d un tempo, alternando la suggestiva tristezza propria del complesso, le innovazione sonore di Johnny Greenwood e un ritrovato gusto per l’esecuzione.
La delicatezza sinistra di Faust arp si alterna alla ritmica irruenta di Jigsaw falling into place, gli accordi deviati di Nude diventano la disarmante dolcezza di Videotape e il tutto converge al centro del disco, dove la cadenza sensuale di All I need la fa diventare una delle migliori canzoni mai composte dai Radiohead.
Frutto anche di un arditissimo esperimento di marketing – in cui l’acquirente poteva acquistare il disco on line scegliendo la cifra da pagare – In rainbows fa tirare un sospiro di sollievo per le sorti della band, facendo passare (anche se non del tutto) il sospetto sul complesso di superiorità del gruppo, che ha ritrovato uno Yorke magnetico e un Greenwood che, sfogate le sue nevrosi musicali in modo più coerente con la colonna sonora de Il petroliere, torna a comporre e arrangiare magnificamente.