La Mostra di Venezia ha concesso ampio spazio tanto nel concorso ufficiale quanto nelle altre sezioni al cinema dell’area mediterranea quest’anno. Italia, Spagna, Grecia, poteva forse mancare il Portogallo (o lo zampino di Paulo Branco) alla 76esima kermesse quindi?

Tiago Guedes continua a esplorare i generi e i mezzi, con il secondo lavoro consecutivo (quarto in totale) per il grande schermo dopo più di vent’anni di carriera tra televisione, teatri, cortometraggi, e film comunque molto differenti fra loro, spaziando dallo horror all’action fino al dramma familiare convenzionale ove è possibile collocare questo A herdade. “Herdade” significa “tenuta” e fa riferimento al luogo ove si svolge la vicenda ma tira in ballo ovviamente anche il concetto di eredità: cosa rimarrà di noi quando ce ne andremo, chi si prenderà cura del mio lascito; questi sono i pensieri di João Fernandes – un buon Albano Jerònimo -, il proprietario di una ricchissima tenuta sulla sponda del fiume Tago, talmente grande da fare quasi principato a sé e da essere trattata dal governo alla stregua di una regione autonoma.

In un periodo di tempo che va dal 1974 ai primi anni ’90 Guedes racconta la seconda metà della storia, quella di un lento e inesorabile declino, mentre la prima parte, quella dell’ascesa iniziata nel secondo dopoguerra, viene lasciata all’immaginazione dello spettatore a cui è offerta, nell’introduzione, una sequenza in cui il padre di João lo costringe a guardare il cadavere impiccato del proprio fratello – un debole, questa la sua colpa. Abbastanza per farsi un’idea. João è più aperto e progressista del padre, ma ciclicamente durante il film ricade negli stessi peccati del genitore, le donne e l’arroganza, e a partire dalla Rivolta dei Garofani la sua vita e quella di tutta la sua famiglia imboccherà una strada che li porterà al disgregamento.

A herdade è una parabola familiare che presenta nella sua saga solo una generazione, l’ultima, quella che segna la fine della dinastia dei Fernandes. Guedes racconta una storia sulle scelte, sul ciò che rientra nel nostro arbitrio e ciò su cui non abbiamo influenza, con un racconto lineare e omogeneo che prende vita su quest’isola fuori dal tempo immersa nel fascismo portoghese. La caduta di Salazar dà vita a un mondo in cui i tenutari non hanno più potere e quella del protagonista è una lotta per resistere al cambiamento, per dimostrare invece il contrario, perdendo. L’idea registica è quella di erodere il territorio con la macchina, fare di A herdade sempre più un dramma chiuso, passare dall’esterno all’interno, dal mondo ai personaggi. Una storia di collasso che procede convergendo.

Prima esplode il mondo, poi la famiglia. Il governo transitorio comunista che succede alla dittatura militare crea le condizioni per un paese che deve ridefinire totalmente al figura del padrone e del lavoratore, il latifondista è una figura del passato ormai, per nulla legata al capitalismo degli anni ’90, che infrange i sogni di resistenza di João e quelli di emancipazione dei suoi dipendenti, che uno dopo l’altro lo abbandonano in un modo o nell’altro. La mdp del regista portoghese riduce l’ampiezza dei propri movimenti man mano che passano i minuti, non fa più uso dell’ambientazione quasi western, tutto si riduce a quella casa polverosa e a chi ci abita, persino il vento smette del tutto di essere usato come tappeto sonoro. E le contraddizioni di João esplodono.

Essere umano imperfetto che è capace di rispettare i lavoratori e convivere con il comunismo (per un tratto) ma che non sa affatto comunicare e risente della didattica spietata del padre, João è simbolo umano di un passato che si sgretola lentamente fino a morire. Con lui gira in sincronia il microcosmo della tenuta, pian piano poi si ferma tutto, e se da una parte fare del protagonista il pivot assoluto della narrazione è funzionale a creare quel senso di epica e a raccontare di pari passo la trasformazione del Portogallo (riuscendovi solo in parte), sul versante opposto si rende necessario scartare tutto il resto, dalla caratterizzazione degli altri personaggi (che esistono solo in sua funzione) alla componente del dramma che è oltre João, vedasi l’ultima linea narrativa che coinvolge i figli. Questi è un uomo che sperimenta come la vita sia immensamente più grande di lui ma ciò ci è mostrato solo attraverso quello che egli subisce.

A herdade è un film tronco, racconta un’epopea familiare senza famiglia, una rivoluzione senza una nazione, e per quanto i tentativi di Guedes arginino queste limitazioni ne esce fuori un racconto umano che non si può certo definire ricco, senza particolarità in un senso o nell’altro. Ci viene presentato un personaggio grigio che però, nonostante le contraddizioni, non ha contrasti forti e quasi nulla da dire su questo punto, è anzi talmente ingombrante da oscurare qualsiasi altra cosa nel film senza rimediare mostrando qualcosa di interessante, di particolare. João/Albano Jerònimo fagocita il film, lo avvinghia a sé in uno sviluppo centripeto come quando nella prima scena dove lo vediamo, la camera segue il volteggio alla corda del cavallo fino ad arrivare alle mani che reggono quella corda e quindi al volto del protagonista, personaggio dal quale Guedes proprio non riesce a non farsi soffocare.