Nel grigiore di una Germania tutt’altro che locomotiva d’Europa, Walter si occupa di sgomberi. Da trent’anni sfugge al suo passato in silenzio, sopportando sulle larghe spalle il peso della colpa oltre a quello dei mobili che carica sul camion per vuotare appartamenti di inquilini sfrattati.
Almeno finché l’ultimo lavoro non cambia tutto: nella ditta di sgomberi si infiltra la malavita che impone a Walter e colleghi di sfrattare una giovane famiglia per acquisire un palazzo sul quale speculare. Senza proclami né clamore, Walter smetterà di essere un semplice spettatore.
Strizza l’occhio al noir l’opera prima di David Nawrath chiamando in causa il topos dell’uomo tranquillo e solitario che, giunto al punto di rottura, si mette in azione rivendicando giustizia. E infatti Atlas regge soprattutto grazie alla buona interpretazione del misuratissimo Rainer Bock (già visto nella quarta stagione di Better Call Saul), compassato e sensibile interprete di un malessere sociale che colpisce sempre i più deboli.
Ma Walter non è un eroe vendicatore, il paladino che – seppur tardivamente – è pronto a ribellarsi al sistema. Walter è un ingranaggio della paura, della rinuncia e del silenzio: fa parte delle cause, non delle soluzioni. Su questa ambiguità, resa in maniera più complessa dal talento mimetico del protagonista piuttosto che dalla sceneggiatura un po’ esile del film, Atlas costruisce una vicenda già vista, ma che affascina nei toni minimalisti della narrazione e nelle ricostruzioni di vite di outsider.