Cappellino da baseball e camicia col suo nome stampato in italiano sul petto (“Gianni”), a calcare il red carpet oggi è stato il giornalista free lance Jon Alpert, regista (e non solo) di Cuba and the Cameraman, il documentario con cui decide di raccontare oltre quarant’anni di reportage, interviste e testimonianze da Cuba. Come suggerisce il titolo, prima di essere un racconto dettagliato della questione cubana il film vuole presentarsi come il racconto di un’avventura personale e professionale dello stesso Alpert durata quasi mezzo secolo, tra interviste e incontri sia con il Lider Maximo Fidel Castro che con normalissimi contadini, studenti e cittadini dell’isola protagonista della storia contemporanea degli ultimi cinquant’anni.

L’originalità del progetto di Alpert, prodotto e distribuito da Netflix, sta nel raccontare una storia complessa come quella dell’isola cubana attraverso le testimonianze di personaggi intervistati a partire dal suo primo viaggio nel paese (1972) e poi rincontrati di volta in volta nelle sue successive trasferte cubane (l’ultima nell’autunno dello scorso anno, in occasione della scomparsa di Fidel Castro). Nella prima parte del film, Alpert decide di presentare brevemente la sua storia e il suo lavoro al pubblico, raccontando dei suoi primissimi esperimenti da cameraman tra il degrado e le difficoltà della sua New York (risalenti ormai a cinquant’anni fa), mostrandoci in questo modo un approccio e uno stile che nel corso degli anni sembra aver modificato solo in parte: Alpert adora la semplicità e la sincerità della sua camera a spalla, mezzo con cui riuscirà a intervistare per la prima volta il Lider Maximo nell’isola (uno dei primi giornalisti americani a farlo) e con cui avrà poi modo di seguirlo nel suo volo verso New York per il suo primo e storico discorso alle Nazioni Unite.

Il regista decide però di relegare la parte sul suo rapporto con la figura di castro solo all’inizio e alla fine del film, dedicando la maggior parte dello screen time al racconto attraverso gli anni delle storie dei personaggi che ha scoperto nei suoi primi viaggi: ci sono i coriacei fratelli contadini Cristobal, Angel e Gregorio, che tornerà a trovare circa ogni dieci anni fino alla morte dell’ultimo fratello, c’è Luis Amores, prima piccolo contrabbandiere e poi proprietario di una piccola impresa edile, e c’è persino una donna che il regista incontra da bambina per poi conoscere i suoi figli nei viaggi successivi. Tornando sempre nelle stesse case, sempre negli stessi quartieri, e intervistando sempre le stesse persone, Alpert riesce a rendere tangibile la progressiva crisi economica e sociale del paese, testimoniata dall’estrema povertà in cui i protagonisti del documentario sprofondano sempre più di anno in anno.

Questo ritratto della crisi è accompagnato da un rimando puntuale (ma non esageratamente approfondito) a tutte le tappe principali della storia recente dell’isola, dall’Esodo di Mariel all’embargo statunitense, dal ritiro di Fidel per motivi di salute nel 2006 fino alla sua morte, dieci anni dopo. Questo estremo disagio sembra però stonare con il proverbiale e quasi stereotipico buonumore di quelli che Alpert si sente ormai in dovere di chiamare amigos: sia Cristobal e i suoi fratelli che gli altri protagonisti trasmettono infatti un ottimismo e una positività quasi surreale rispetto alle condizioni in cui vivono. Il regista riesce così a raccontare una storia dolce e amara, complessa ma già nota ai più nelle sue tappe fondamentali: quello di Alpert è un omaggio sentito e ben confezionato al paese più importante per la sua carriera di reporter, giornalista e appunto cameraman.