Presentato come evento speciale durante la penultima delle Giornate degli Autori di Venezia 74 e in collaborazione con il Tribeca Film Festival, Thirst street è il settimo lungometraggio del giovane e istrionico regista americano.
Gina è uno hostess in depressione dal suicidio del compagno Paul che durante uno scalo a Parigi vive una notte di passione con Jérôme. In preda all’euforia decide di trasferirsi a Parigi per tentare di costruire una relazione stabile, ma il ritorno dell’ex-fidanzata di lui Clémence la farà mettere da parte, facendola precipitare in un vortice di follia.
Silver realizza la sua settima opera mantenendo la linea delle precedenti, muovendosi sui binari della tragicommedia e del surreale. Senza troppe pretese e in nessun modo ambizioso, Thirst street punta sulla simpatia, si potrebbe dire, propugnando con l’intelaiatura di una commedia nera una serie di piccoli spunti di riflessioni sulla quotidianità, sulla scelta, sulla linea di demarcazione tra follia e sanità nella sfera affettiva. La voce di Anjelica Huston narra le vicende come se stessimo assistendo a una favola moderna, con ingenuità e immediatezza. La divisione in due tempi, così attuata, regala piccole perle di comicità, infatti, nel mettere a confronto le sequenze narrate con quelle del primo piano di realtà emerge limpido il ribadimento dell’assurdità generale della situazione. Le prime hanno una luce uniforme e volontariamente eccessiva, quasi sbiancante, a riproporci la finzione del tutto, sembrano quasi un film muto (aiutate anche dal formato 4:3 e dalle non troppo parsimoniose velocizzazioni), mentre la regia quando siamo nella stessa dimensione di Jérôme e Gina si calma, procedendo per piani-sequenza piuttosto elaborati ma affatto vistosi che vengono intervallati da altrettanto sostenuti primi piani che mostrano le deformazioni del volto dei personaggi.
Per ottantacinque minuti dunque assistiamo all’involuzione del rapporto trai due protagonisti, messi in crisi dalla vecchia fiamma, unico personaggio psicologicamente stabile nel film, a favore della quale di fatto poi si risolve il triangolo. La caduta di Gina è però tutt’altro che folle all’apparenza, diventando tale solo quando Silver fa in modo di farcela vedere da fuori, su quel mezzo piano narrativo più su. Da lavorare in un night club a obbedire ciecamente, Gina fa tutto per compiacere Jérôme che però pur lasciandola esplicitamente, dapprima incuriosito ma successivamente stufo della situazione, non riesce a farla rinsavire, e così Gina diventa una stalker professionista e fuori di testa. Il punto è la quotidiana banalità della follia che invade l’opera, divertente e a tratti grottesca tuttavia capace di instillare qualche dubbio nello spettatore, se non addirittura fungere da spunto per qualche considerazione genuina.
In conclusione, Thirst street è un’opera semplice che soddisfa appieno tutti gli obiettivi che si propone, con una buona tecnica nella messa in scena e una sincerità di fondo che non può che incuriosire, nonostante lastruttura narrativa piuttosto monotona senza un intento tematico o artistico chiaro. Non indispensabile ma azzeccato.