Falstaff alla Fenice, prima di stagione

VENEZIA – Il catalogo verdiano è una “biblioteca” sonora: nella vasta e, a tratti, serrata produzione musicale troviamo per lo più i grandi nomi della letteratura europea – Hugo, Byron, Voltaire, Dumas, Schiller e Shakespeare. In Falstaff, opera inaugurale della stagione lirica 2022-2023 del Teatro La Fenice, il celebre «Tutto nel mondo è burla», non tanto diverso dall’«All the world’s a stage» di As you like it, è anche il saluto, sul finire del secolo, di una vita passata nelle gramaglie del dramma tragico. Verdi sente con l’età il bisogno di lasciare ai posteri la “sua” ultima risata, malinconicamente beffarda, ma sapientemente costruita, a cui molti saranno debitori – lo dimostra La Bohème di Puccini a soli tre anni di distanza.  

L’allestimento proposto dal Teatro La Fenice naviga nei solchi della più rassicurante tradizione, in quanto il regista Adrian Noble rimane fedele al contesto storico. Ambientata completamente all’interno del Globe Theatre, ricorre a controscene di metateatro, con Shakespeare stesso che prova il Midsummer Night’s Dream, cambi di scena arricchiti da mimi e un aggiungersi via via di dettagli che portano l’occhio a perdersi nella raffinatezza dei costumi di Clancy e delle scene di Dick Bird. Il lavoro di regia di Noble c’è e si vede nel definire nettamente i caratteri. La malinconica leggerezza che attraversa l’unica commedia lirica del Cigno di Busseto è in realtà controbilanciata dall’aspra critica morale che le allegre comari di Windsor riservano a sir John. La struttura fissa di legno, se ben si adatta ai primi due atti, nella seconda parte del terzo diventa ingombrante per la quantità di persone impegnate nel pandemonio finale. Le luci di Jean Kalman Fabio Barettin contribuiscono alla buona riuscita complessiva. Guardando questo Falstaff si ha l’impressione di sfogliare un catalogo di figurine Liebig o qualche edizione illustrata inglese dei primi del Novecento, constatando un fare teatro tipico d’Oltremanica – penso all’indimenticabile Merchant of Venice del 2016 al Goldoni di Venezia. 

Myung-Whun Chung dirige orchestra e palcoscenico con indiscussa maestria, ricavando dalle varie sezioni strumentali i colori più adatti per dipingere un Falstaff di alta qualità, sia nei momenti di più squisita intimità che nei frequenti attimi corali e concitati. Chung ha spesso galvanizzato il pubblico veneziano – per quello che oggi significhi “veneziano di Venezia” – amato e stimato con un affetto che ci riporta alle stagioni in cui Inbal, Karabtchevsky e Viotti instauravano con la sala un legame particolare, una sorta di “discorso” che si protraeva nel tempo.

Sul versante vocale, la compagnia si rivela davvero omogenea ed affiatata. Nicola Alaimo conosce il ruolo eponimo come le proprie tasche. Padrone di una linea di canto solida, è un Falstaff umano, forse troppo, che va incontro al destino quasi consapevole di ciò che l’aspetta. Il Ford di Vladimir Stoyanov, nell’abito da puritano, è ampiamente centrato, così come sua moglie Alice, la puntuale e intensa Selene Zanetti. Caterina Sala è Nannetta di invidiabile freschezza, quanto la Meg piacevolmente irruente di Veronica Simeoni.  

Sara Mingardo erige un “monumentum aere perennius” con la sua Quickly: arriva immediatamente al pubblico fin dall’ingresso in scena, le ambasciate a Falstaff sono qualcosa di unico e l’immedesimazione nella parte è totale. René Barbera è Fenton preciso e generoso, mentre il Cajus di Christian Collia è figlio degno della Commedia dell’Arte. La coppia di servitori, Cristiano Olivieri nei panni di Bardolfo e Francesco Milanese in quelli di Pistola, è ben risolta.

Bene il coro preparato da Alfonso Caiani.

Successo per tutti all’ultima recita del 26 novembre con pubblico in delirio per Alaimo, Chung e signore.

Luca Benvenuti