VENEZIA – Faust torna dopo meno di un anno al Teatro La Fenice di Venezia. Ne scrivemmo qui, sottolineando come la scelta del titolo fosse un atto di resilienza dopo mesi di streaming dovuti all’emergenza Covid. Questa volta l’opera si fa alla maniera tradizionale, sul palcoscenico e non nella platea, sfruttando l’apporto scenografico di Sebastian Ellrich e i costumi di Gabriela Salaverri. Dal Faust “asburgico” curato in toto da Joan Anton Rechi si passa al mondo del cinema e delle sue illusioni. Novelli Ekberg e Mastroianni, i due amanti vivono il ricordo delle stagioni che furono, catalizzati da un Méphistophélès regista dei loro inganni. Tale spunto dura giusto il tempo del prologo e perde di senso dall’entrata di Valentin in poi.
Visto e rivisto è l’omaggio a Fellini, con la passerella girevole che richiama 8½ come non è una novità vedere in azione Marilyn, Marlene Dietrich, Uma Thurman, Liz Taylor o Mefisto in vesti muliebri durante la Walpurgisnacht – scelta questa già sfruttata da McVicar nell’allestimento del 2004 alla Royal Opera House così come le luci da Cabaret Enfer. Non mancano dettagli “trasgressivi”, quali il sentimento incestuoso di Valentin per la sorella o l’allusivo blowjob di Marthe a Mefisto, aggiunti più per épater le bourgeois che per risemantizzare coerentemente il libretto. Persino il disegno luci di Alberto Rodriguez Vega non funziona. Pagine brillanti come la kermesse e il valzer, dove il coro preparato da Alfonso Caiani dà il meglio di sé, si stemperano in un apparente dinamismo che poco trasmette dell’ebrezza del vino e della danza. Nell’ultimo atto campeggia una grande scritta al neon, “Rien“, la sintesi di queste tre ore di spettacolo. Oltre a farci capire come per Rechi l’anelito alla salvezza che pervade la trama e l’estremo grido di redenzione finale soccombano dinanzi a un suo personale e spiazzante nichilismo, rien è ciò che rimane tolte le tante, ma disorientanti, idee del regista.
Tra gli interpreti giganteggia Alex Esposito, Méphistophélès sicuro negli attacchi, preciso nel fraseggio e chiaro nella dizione. A distanza di un anno, si nota una maturazione impressionante nel ruolo, debuttato nel 2016, distinguendosi per una maggiore incisività del gesto scenico e per una comprensione eccellente del sottotesto. Paola Gardina è Siébel puntuale così come il Wagner di William Corrò, assai ridimensionato da Rechi rispetto al 2021. Ivan Ayon Rivas dà tutto se stesso per un Faust corretto e dignitoso, ma rimane anonimo nella sua “Salut demeure chaste et pure”. La Marguerite di Carmela Remigio si è fatta più drammatica, ma soffre di uno strumento non adatto al personaggio che non è una Mimì, ma un’anima dannata che aspira al perdono. Completano il cast Armando Noguera come Valentin ancora poco centrato e Julie Mellor come Marthe.
Se l’anno scorso notammo un ispirato Frédéric Chaslin alla guida dell’orchestra, lo stesso non si può dire oggi. Manca quel tipico accento pompier, si indugia su tempi e dinamiche contrastanti e meno chiare appaiono le idee interpretative necessarie per restituire ora l’intimità ora la frivolezza ora la tragicità del linguaggio di Gounod.
Applausi entusiasti da parte del gremito pubblico alla prima del 22 aprile, con Esposito, Remigio e Chaslin favoriti.
Luca Benvenuti