Con la scusa di raccontare la sua vecchia amica Fran Lebowitz, umorista e scrittrice, nonché storica presenza nella scena intellettuale e letteraria newyorkese sin dagli anni ’70, Martin Scorsese seziona la città alla ricerca di stralci urbani solitamente ignoti ad abitanti o visitatori distratti, ma anche all’occhio dello spettatore abituato alla fascinazione della Grande Mela dettata da stereotipi o esperienze fugaci. Non sono solamente le piastrelle dove si leggono citazioni o commemorazioni di edifici o personaggi storici , ma soprattutto la condivisione dei contatti umani della narratrice, i suoi ricordi e i suoi punti di vista, per quanto non sempre condivisibili , e spesso pervasi della sua incallita misantropia, a regalarci uno sguardo nuovo sulla città.

Una preziosa miniserie co-prodotta dalla stessa protagonista, in cui il regista difende e conferma il suo stile personale e rigoroso , da autore e amante di un cinema come si faceva una volta, e aggiunge un tassello prezioso alla sua filmografia, nella quale grazie alla sua leggendaria capacità di narratore e osservatore sensibile della realtà che lo circonda, le esperienze di vita vissuta possono diventare episodi godibili di una finzione cinematografica (vedi l’auto citazione da Tutto in una notte , con la folle corsa in taxi).
In onda sulla piattaforma Netflix dall’8 gennaio le sette puntate, di circa mezz’ora l’una, scorrono via in un lampo nelle mani esperte del regista, che evita che il fiume ininterrotto di parole della Lebowitz sommerga lo spettatore, mantenendosi in equilibrio tra i toni cinici e dissacratori della narratrice, e la delicatezza che pervade le immagini della città, che si ama perché non si ha scelta (“dove altro potrei vivere?”).

Con Andy Warhol negli anni della Factory

Nonostante i suoi lati oscuri, i suoi molti luoghi dedicati al quotidiano ma lasciati al degrado, ma un degrado nascosto da opere d’arte che sbucano ad ogni angolo non sospetto, e dove le finanze necessarie alle ristrutturazioni sono inveceinvestite nella bellezza , come se l’estetica dovesse prima di tutto distrarre dai disagi e spargersi ovunque si possa.

Ci vuole qualche momento, all’inizio della serie, perché l’occhio capisca di osservare un plastico e non la città vera, ed in questo risiede la genialità registica: vediamo prima ciò che la nostra mente ha costruito nel suo immaginario, ma se poi veniamo accompagnati oltre, scopriamo ciò che all’inizio ci veniva nascosto, andando aldilà del primo contatto, sia esso con un’immagine , sia esso con un vicino, un passante per il quale sembravamo non esistere. Ma invece ci siamo, e dobbiamo far si che la bellezza che ci circonda non venga dispersa nel mare delle contraddizioni: tanto quelle di New York quanto quelle, meno simboliche o meno evidenti, nascoste dietro ogni angolo delle strade che percorriamo abitualmente, o dietro ogni esperienza che viviamo nell’odierna società in trasformazione.