Libano, luglio 2006: durante una delle numerose guerre tra Hezbollah e Israele, un gruppo di sconosciuti, per la maggior parte anziani, si ritrova bloccato nella stessa casa per ripararsi dalle bombe. Quando un gruppo di soldati israeliani irrompe nella casa, occupando il piano superiore a quello in cui si trovano, i malcapitati si ritrovano in trappola. Dovranno trovare il modo di sopravvivere senza farsi notare dai nemici.

Nei film di guerra spesso ci si concentra sui protagonisti, i soldati, riservando ai civili solo alcuni momenti secondari volti a sottolineare gli orrori del conflitto. Ahmed Ghossein, al suo esordio in un lungometraggio, sceglie la strada opposta, concentrandosi su un gruppo di individui sotto assedio, costretti a vivere come topi per alcuni giorni al fine di sopravvivere, prigionieri delle mura e delle proprie paure. Le vittime invisibili diventano qui protagoniste, e ci vengono mostrate in tutta la loro umanità, in un contesto in cui tutte le loro preoccupazioni precedenti (il rapporto incrinato tra un padre e un figlio, una gravidanza difficile, il desiderio di fuga) diventano quasi irrilevanti di fronte alla prospettiva di perdere la vita.

Nonostante la terribile serietà della tematica e delle situazioni raccontate, il film sorprende per la capacità di bilanciare la tensione, tanto palpabile da essere quasi solida, con momenti conviviali e umoristici, inseriti in modo armonico in mezzo a quelli più tesi. In mezzo alle esplosioni e ai continui rischi di essere scoperti abbiamo così dialoghi esilaranti sulla conoscenza dell’ebraico e sui problemi di salute degli anziani. La commistione di toni è riuscitissima, e contribuisce alla creazione di un racconto vero ed emozionante della guerra dal punto di vista delle vittime civili, mostrando come una convivenza forzata possa trasformarsi in un legame profondo.

Ghossein trasforma un appartamento in un microcosmo che rappresenta un’intera nazione condannata a vivere in uno stato di perenne assedio, vittima di una guerra permanente che sembra destinata a non avere mai fine. Il nemico è invisibile ma lo si può sentire, intravedere, annusare: una presenza costante e angosciante, come un incubo ricorrente da cui non si riesce a sfuggire. Le quattro mura della casa ricordano quelle del carrarmato di Lebanon, confini invalicabili che offrono protezione ma sono allo stesso tempo prigione del corpo e dell’anima. La fotografia iperrealistica si sposa alla perfezione con la sceneggiatura per rappresentare la claustrofobia asfissiante sperimentata dai protagonisti, costretti a fare i conti con la paura, ma anche con il caldo, la mancanza d’acqua, e la cattiva salute di alcuni di loro.

Jeedar el sot è un esordio fulminante per capacità di racconto, realismo, e resa emotiva, un riuscitissimo affresco della guerra e di ciò che questo significa per la vita delle persone comuni, e in particolare di quelle deboli e fragili. Un film potente, universale, che nelle mura di un appartamento male in arnese riesce a raccontare senza retorica né inutili pietismi la disperata lotta per la sopravvivenza che ancora oggi costituisce purtroppo la quotidiana esperienza di milioni di esseri umani, in Libano e in altre parti del mondo.