“LEBANON” di Samuel Maoz

Nel mirino

Venezia 66. Concorso
Libano, 1982: è il primo giorno di guerra. Un gruppo di soldati alle prime armi si installa al comando di un potente carro armato. Non ne uscirà più, per tutta la durata del film: ma non per questo sarà meno esposto ai pericoli ed agli orrori del combattimento, precipitando progressivamente in una disperata angoscia fatta di morte e claustrofobia.

L’unica via d’uscita per pubblico e carristi è in effetti il mirino della macchina mortale, tramite il quale il mondo esterno può affacciarsi all’angusta oscurità in cui i giovani sono costretti. Quell’“occhio”, tuttavia, non offre alcun sollievo: forse per via della sua vocazione distruttiva, costantemente ricordata dal mirino a croce che ne segna il campo visivo, esso non riesce che a soffermarsi su torsi dilaniati, innocenti martoriati ed uomini capaci solo di aggredire e distruggere.

Quello che l’esordiente Samuel Moaz mette in scena in Lebanon è un esperimento di regia condotto con abilità, per quanto non completamente privo di precedenti (si vedano i sommergibili di Das Boot, Wolfgang Petersen 1981, e Crimson Tide, Tony Scott 1995). Interessante è, tuttavia, lo sfruttamento a fini espressivi del potere “magnificatore” del mirino. Il continuo uso dell’ingrandimento da parte del soldato alla guida, più che essere mero atto voyeuristico, sembra autenticamente mosso dal solo desiderio frenetico di amplificare le sensazioni vitali riflesse da chi è ancora libero di muoversi nel mondo esterno. Tuttavia, in una sorta di tragica parodia bellica del principio d’indeterminazione di Heisenberg (in estrema semplificazione, l’osservazione della quantità di moto di una particella altera la velocità della medesima, e viceversa, per cui non è possibile conoscere quantità di moto e posizione al tempo stesso), non appena il mirino ha successo nella sua ricerca di vita e libertà, indugiando su lavoratori, donne o bambini, ecco che ha inizio uno sterminio di quegli stessi innocenti, al quale il carro armato non desidera unirsi, ma al quale non può sottrarsi. In Lebanon, vedere significa uccidere.

L’integrità dell’occhio mortale del tank garantisce tuttavia, al tempo stesso, la sopravvivenza dei suoi inquilini. E non è un caso che la rovina dei disperati carnefici cominci a partire dal momento in cui le linee rette del mirino iniziano a spezzarsi, incrinate dal contraccolpo di un razzo nemico.

Se Lebanon colpisce per abilità registica (configurandosi così come potenziale candidato al Leone d’argento), non lo fa tuttavia a livello di contenuti, lasciando che la contestualizzazione storica del tour de force nel blindato rimanga un mero pretesto. La storia di Lebanon potrebbe aver luogo durante qualsiasi altra guerra, mantenendo inalterata la sua fisionomia: un film per questo esposto ad altissimo rischio di remake, che forse finirebbero per trovare scontate (e retoriche) ambientazioni nei dintorni di Baghdad.

Titolo originale: Levanon
Nazione: Israele
Anno: 2009
Genere: drammatico/azione
Durata: 92′
Regia: Samuel Maoz
Cast: Yoav Donat, Itay Tiran, Oshri Cohen