Mentre scriviamo speriamo ovviamente di essere usciti dalla fase più acuta della pandemia, o almeno di non dover incappare in ulteriori lockdown o sperimentare tragiche fasi di sovraffollamento degli ospedali, ma intanto è bene che il cinema rifletta su quanto è successo, non solo a partire dal 2020, ma anche in occasione di alcuni meno noti precedenti storici.
Ci è sembrato interessante raggruppare e confrontare sotto un unico cappello tre film passati qui al festival di Karlovy Vary, che riflettono con modalità e stili diversi sui problemi causati dai virus al mondo dei viventi. Diciamo “viventi”, poiché una delle tre opere è dedicata in primis agli animali, mentre un’altra racconta di una epidemia che non divenne pandemia in quanto fu bloccata sul nascere, e di cui pochi probabilmente sanno.
Abbiamo in mente il bulgaro Provincial Hospital, portato nel concorso principale da un gruppetto di tre documentaristi, Ilian Metev, Ivan Chertov, Zlatina Teneva, di Another Spring del serbo Mladen Kovačević e infine di Zoo Lock Down del salisburghese Andreas Horvath, che invece concorrono nella sezione Proxima. Gli approcci non potrebbero essere più diversi, ma proprio per questo è interessante cogliere, come giustamente hanno fatto i selezionatori del festival, una temperie comune che a diverse latitudini europee spinge dei documentaristi a riflettere sui pericoli e le conseguenze delle diffusioni virali.
Il più tradizionale è il film bulgaro, che racconta, con toni low-fi e una certa (forse voluta) approssimazione da “buona la prima”, il picco pandemico del 2020 così come è stato vissuto in un’unità Covid della Bulgaria occidentale. Sono in sostanza immagini che abbiamo visto numerose volte nei nostri telegiornali, inanellate qui in base ad un’alternanza di riprese su pazienti e medici. I primi vengono inquadrati senza il minimo voyerismo, anzi con un rispetto e una giusta distanza che ne restituisce con un buon equilibrio timori, momenti di gioia e di sconforto. Anche i due esiti antipodicamente contrapposti, l’uscita dall’ospedale come paziente guarito o come vittima del Covid, sono illustrati in modo metonimico, ossia attraverso un’osservazione di parenti o paesaggi, che sono messi in relazione con il singolo malato, a seconda della sua sorte. La modalità con cui invece vengono seguiti il primario e le infermiere è più ironico: Metev & co. qui si possono permettere un distacco e una leggerezza che illustrino, senza eccessivo pessimismo, le prevedibili difficoltà organizzative cui i medici devono far fronte in una clinica di provincia bulgara. Ne risulta un caleidoscopio umano dai toni soffusi, in cui alle mancanze oggettive di attrezzature si sopperisce con una forte carica empatica e un ironico realismo.
Ai tre autori manca forse una marcia in più, un “addensante” o un “accelerante” che in sede di sceneggiatura potesse concentrare maggiormente spunti esistenziali e paradossi antropologici dei personaggi, ma la routine osservazionale ospedaliera (spesso interrotta da sguardi in macchina e sfondamenti della quarta parete) ci avvicina senz’altro con grazia e rispetto al dolore di un piccolo luogo cechoviano.
Horvath sceglie invece un approccio piuttosto originale (se non stravagante), ossia quello di osservare il comportamento degli animali ospitati nello zoo della sua città natale durante il periodo del lockdown. Avvicinandoci alla proiezione ci chiedevamo quale potesse essere la soluzione realizzativa, l’angolazione specifica da applicare alla prospettiva animale. In cosa, insomma, potesse essere diversa l’osservazione di leoni e scimmie durante una pandemia rispetto a una situazione di normalità. E in effetti il dubbio si è trasformato in una delusione piuttosto cocente: una eccezionalità pandemica viene riflessa e può essere registrata in modo significativo in entità viventi che ne abbiano coscienza, ma non si riesce ad evidenziare o a cogliere lo scarto rappresentativo e ideale una volta che l’attenzione si sposta su ignari leoni o pappagalli (senza considerare il fatto che il Covid praticamente non si trasmetteva quasi mai fuori dalla specie umana).
Ci siamo dunque ritrovati ad osservare gli ospiti del giardino zoologico mentre facevano esattamente le stesse cose di sempre, solo senza l’elemento disturbatore antropico. Un punto di partenza, questo, che di per sé avrebbe potuto trasformarsi in una riflessione sulla situazione anormale cui gli animali sono sottoposti quando limitati in gabbie e piscine di limitate dimensioni per il sollazzo di noi esseri umani, ma che invece rimane appiattito su una serie di simpatiche scenette. L’assenza dei visitatori è dunque l’unico scarto effettivo, ché invece la cura e la pulizia operata diligentemente dagli operatori zoologici ci viene descritta con abbondanza di particolari: dal lavaggio della vasca dei piranha (uno dei pochi momenti “thriller” del documentario), al prelievo manuale di un’abbondante fiala di sperma operato su un rinoceronte addormentato e in fondo piuttosto soddisfatto…Insomma ci sembra che il film non funzioni granché, in quanto le razze animali non hanno subito alcuna “mutazione psicologica”, per ovvie ragioni, e l’osservazione del loro comportamento non sembra offrire reali motivi di riflessione sull’eccezionalità del momento cui sarebbero stati sottoposti. Diverso sarebbe stato, per esempio, osservare le reazioni o lo stress di uno zoo (di sicuro ce ne saranno stati di meno fortunati di quello salisburghese) in cui per un certo periodo gli animali fossero rimasti abbandonati o sottoposti a difficoltà di approvvigionamento. Insomma, a nostro modo di vedere questo di Horvath è un po’ un buco nell’acqua.
Infine, il film serbo invece offre tutt’altra prospettiva storica, ricostruendo, come fa, una “quasi” pandemia che per fortuna e grazie all’intervento repentino delle autorità, non si trasformò in catastrofe mondiale. Si parla della Jugoslavia del 1972, dove scoppiò l’ultima epidemia europea di vaiolo realmente pericolosa, ma (come racconta Kovačević con toni da thriller che sfocia a volte nell’horror visuale) la limitata circolazione della popolazione e rapide misure di contrasto permisero di far rientrare l’emergenza e di limitare il numero delle vittime. Come è spesso successo anche negli ultimi decenni, il focolaio principale dell’epidemia di vaiolo dell’inizio anni Settanta nacque in zone asiatiche scarsamente attrezzate e povere. Attraverso gli spostamenti legati ai pellegrinaggi religiosi islamici essa arrivò in Kosovo, allora parte integrante dello stato titino, per lambire anche la capitale Belgrado e alcune altre comunità. Kovačević non sembra volerci proprio tranquillizzare o metterci a nostro agio, indugiando, come fa, sulle orrende pustole che coprivano i poveri corpi martoriati delle persone infettate. Anzi, un’immagine spesso sporca e sgranata e l’uso di un ralenti accompagnati da musica elettronica inquietante creano un tappeto emotivo che fa calare sullo spettatore una cappa di timore e incertezza, come se si avesse a che fare con un’entità ancora oggi minacciosa.
Le riflessioni antropologiche che invece questo Another Spring suggeriscono sono legate alla sostanziale diversità e velocità di diffusione di un virus nel 1972 rispetto a oggi: la globalizzazione ormai imperante, la moltiplicazione dei voli intercontinentali e (dettaglio non secondario) il carattere fortemente centralizzato del governo belgradese sono elementi di differenziazione che permisero di limitare a poche centinaia i morti di quell’evento, anche in forza di una obbedienza (o coscienza civile?) della popolazione jugoslava, che si fece vaccinare in massa a tempo di record, senza neanche avere la possibilità tecnica o politica di dar vita a movimenti anti-vaccinisti o a gesti confusionari sugli allora inesistenti social network.
Che l’evento virale abbia colpito l’immaginazione collettiva dell’ex stato unitario balcanico è confermato dall’esistenza anche di un film di fiction del 1982, Variola Vera, di Goran Markovic, con Rade Serbedzija ed Erland Josephson, che non abbiamo visto, ma che sembrerebbe essere anch’esso intriso di elementi horror. È bene, dunque, anche a distanza di decenni, esorcizzare eventi che avrebbero potuto strabordare come il Covid 19, ma che fortunatamente possono essere narrati con una maggiore serenità e la certezza di aver agito nel modo migliore.