L’ultima eredità dello Studio Ghibli

Il Vento e la Luna

A pochi giorni dall’arrivo nelle sale italiane de Quando c’era Marnie, ultimo lungometraggio dello Studio Ghibli prima di una non ben precisata pausa che, a detta dello storico produttore dello studio Toshio Suzuki, “servirà a creare un ambiente totalmente rinnovato per la nuova generazione di autori”, è più che lecito essere preoccupati per questo “cambio della guardia”.

A fronte dell’addio all’animazione di Hayao Miyazaki – anche se, stando a una recente intervista, parrebbe intenzionato a realizzare un ultimo cortometraggio, completamente in computer grafica – e del silenzio del cofondatore Isao Takahata, il quale, alla veneranda età di ottant’anni, non ha annunciato alcun progetto venturo, sorge spontanea una domanda: qual è il lascito di questi due maestri e come si colloca rispetto alla loro produzione precedente?

Guardando in primo luogo a Si Alza il Vento di Hayao Miyazaki, ci si imbatte in una pellicola per certi aspetti controversa, ma le cui tematiche sia etiche che estetiche rientrano pienamente nella poetica del regista e concorrono a definirne l’assetto testamentario e biografico. Come asserito da Miyazaki stesso nel documentario di Mami Sunada Il Regno dei Sogni e della Follia, per i modi di fare e la voce di Jiro si è ispirato a suo padre Katsuji, anche lui ingegnere aereonautico. Il volo è sempre stato un chiodo fisso dell’autore, come si evince dall’attenzione prestata ai particolari meccanici e al design dei mezzi e dalla valenza filosofica attribuita al cielo, elemento essenziale di opere quali Laputa e Porco Rosso: interessante l’ipotesi avanzata da alcuni studiosi che il volo nasconda anche una metafora sessuale, che trova ulteriori riscontri ne Si Alza il Vento.

E’ tuttavia il laconico protagonista a costituire un’anomalia: il tipico eroe Miyazakiano è generalmente di giovanissima età e di sesso femminile ma, cosa più importante, attraversa un percorso di crescita che lo porta a scegliere tra giri – “obbligazione sociale” – e ninjo – “sentimenti umani” -, classico bivio della letteratura giapponese. Jiro invece, nonostante sia ormai adulto, non ha completato né completerà il suo percorso di crescita, come testimonia la sua ingenuità: prova ne sono i dialoghi con l’amico Kiro o con la rappresentazione onirica di Caproni, i quali cercano continuamente di sottoporgli il problema etico che sorge nel creare strumenti di morte, ricevendo come unica risposta “Io voglio solo fare un bell’aereo”.

E’ indubbio che Si Alza il Vento sia un’opera antimilitarista, ma fuggire il confronto con la realtà contingente rende Jiro un personaggio amorale. Lungi da chi scrive ritenere che il cinema debba essere sempre e comunque eticamente edificante, ma è Miyazaki in prima persona a sostenere di voler comunicare ai più piccoli valori semplici, di chiara eco buddista. Solo mascherato è infine l’egoismo di Jiro: dal suo primo incontro con Nahoko in più di un’occasione avrebbe potuto rimettersi in contatto con lei, ma si interessa alla giovane soltanto dopo aver compreso che la loro unione è inevitabile. Egli cerca dunque di accelerare i tempi convolando a rapide nozze per poi rimettersi subito all’opera, dedicando alla moglie malata qualche sporadica visita: da ultimo, notare che nel finale, in seguito all’apparizione della defunta Nahoko, non versa nemmeno una lacrima. Pertanto, essendo innamorato solamente del proprio lavoro, Jiro non si pone mai di fronte alla scelta di cui sopra, perché giri e ninjo vengono a coincidere nel suo impiego, in una totale indifferenza per gli esseri umani che lo circondano, freni alla sua onanistica attività creativa.

Di tutt’altra natura il canto del cigno di Isao Takahata, che ne La Storia della Principessa Splendente narra una toccante parabola sulla morte di origine folclorica, coniugando alla perfezione il consueto realismo e uno sperimentalismo non comune per un artista così avanti negli anni. Takahata infatti opta per la delicatezza dell’acquerello e del carboncino, tecnica che ha influito pesantemente sui tempi e i costi di produzione permettendogli però di raggiungere nuove frontiere espressive: basti pensare alla scena della fuga di Kaguya, in cui quest’ultima si stilizza progressivamente di pari passo con la riduzione della gamma cromatica, rappresentazione della sua rabbia cieca. Questo stile garantisce inoltre una maggior precisione nella resa dei dettagli, indispensabili per la profondità storica tanto cara al regista, creando un compromesso tra il tempo sospeso delle favole e il fasto del Periodo Heian.

Nonostante queste premesse il film si è rivelato un fiasco al botteghino, secondo alcuni imputabile all’eccessiva maturità dei temi trattati: una critica che non tiene conto del pensiero di Takahata, secondo il quale è portando gli individui a confrontarsi con le sfumature più amare della vita sin dalla tenera età che si può evitare di ripetere i grandi errori della Storia, primo fra tutti la guerra, oggetto del suo capolavoro Una Tomba per le Lucciole. Purtroppo, in quest’epoca di filtri, una simile opinione risulta tanto impopolare quanto corretta dal punto di vista pedagogico. La protagonista tratteggiata da Takahata è una bambina di campagna, una venere in comunione con la natura che, una volta nella capitale, si sente soffocata dal lusso e dai doveri del nuovo rango impostile dal padre.

In sintonia con il pensiero tradizionale, il fatto che Kaguya cresca più velocemente dei suoi coetanei sta a significare la brevità di quella parentesi che chiamiamo vita, verso la quale ha un approccio ambivalente: da un lato, vedendo se stessa privata delle gioie della vita rurale e il suo pudore minacciato da viscidi pretendenti, formula il desiderio di abbandonare questo mondo, ma dall’altro, man mano che si avvicina il giorno del ritorno sulla Luna, cerca disperatamente di restare sulla Terra, rammaricandosi di non aver saputo dare un senso alla propria esistenza stando vicino a coloro che la amavano davvero. E’ possibile scorgere un ulteriore rimando buddista per quanto riguarda la Luna, luogo cui fanno ritorno le anime dei celesti dopo essersi avvolte nell’abito di piume, indumento che fa loro scordare le pene del mondo terreno. Dati l’astuta difesa della castità e il proposito del suicidio onde difendere la sua individualità, Kaguya si configura come una principessa stoica e al contempo dolce e spontanea, un nuovo prototipo di eroina tragica costretta dall’amore per i genitori a mettere in secondo piano i propri sentimenti, la cui purezza resta però indiscutibile.

Il comune denominatore di queste due pietre miliari resta senza dubbio l’indefessa volontà di fare animazione senza sottovalutare le menti dei più giovani, i quali trovano nei loro eroi animati non solo un’occasione per viaggiare con la fantasia, ma anche per crescere: un’etica professionale che purtroppo i nuovi eredi dello Studio Ghibli, affascinati dalle facili promesse del mercato occidentale, paiono non condividere. E chissà che Marnie non sia il ritorno alle origini che stavamo aspettando.