I quattro piccoli fratelli che vivono un paesino chiamato Khechuperi, una conca nepalese situata proprio sulla catena della Himalaya, prestano i volti alla conclusione della Semaine de la critique locarnese del 2018. Attraverso il loro sguardo, o quello, più in generale, dell’ultima generazione, Georgina Barreiro va a indagare le tradizioni, il folklore e i rituali della popolazione dei Buthia, esemplificativi dell’insinuarsi della globalizzazione anche negli anfratti più oscuri e dimenticati della civiltà.
Dopo una sestina di film non così indimenticabili, La huella de Tara chiude efficacemente il cerchio andando a posizionarsi esattamente nella stessa schiera ben ordinata. A onor del vero, è più compatto di molti dei suoi omologhi, però ne riverbera i consueti difetti: la mdp della Barreiro si muove tranquilla tra un lato e l’altro del villaggio e riporta i vari comportamenti dei suoi abitanti, prestando attenzione in particolar modo a come questi rielaborano le tradizioni, cioè adattano il loro modo di vivere a quello imposto dall’alto. I bambini sono il soggetto privilegiato, perché in loro non è stato radicato – meglio, non ha avuto modo di radicarsi – il potere tradizionale, e sono egualmente predisposti nei confronti sia di un mondo che dell’altro.
Questa camera fissa, come nei documentari più audaci, o la capacità di cogliere alcuni momenti nel loro contesto naturale o artificiale, fa della regia della regista argentina un piccolo punto di forza del film. La sua preparazione è encomiabile, ma visionare e vedere sono due concetti che possono benissimo darsi come separati, tanto che lo sguardo complessivo sul film ha costituzione eminentemente descrittiva, quasi antropologica nel sospendere qualsivoglia giudizio preferendo dedicarsi invece al solito riportare nel suo apparente purismo il reale, considerando la macchina-cinema come una contaminazione spiacevole ma necessaria
Le impostazioni di fondo funzionano, ma mancano di un legame creativo – sì, ancora una volta – che tenga assieme i veri elementi, dando una precisa identità al film. La sua disamina della globalizzazione è infatti strettamente acritica, naturalistica quasi, a discapito dell’oggetto filmato, consistendo sostanzialmente in una descrizione fattuale dei suoi effetti su Khechuperi. Insomma, La huella de Tara è un film che manca di personalità, facendo capo a una sfilza di imperativi metodologici che andranno di moda per Discovery Channel ma non dovrebbero o potrebbero essere applicabili durante le riprese di un film come modus operandi, a livello del pensiero.
Barreiro dimostra di avere avuto qualche carta in più da giocarsi, perché al netto delle questioni sistemiche, i meccanismi di integrazione musicale e folklorica, feste e danze, per esempio, o i ragazzi che tentano curiosi di addentrarvisi per comprendere meglio questi micro-fenomeni a loro del tutto sconosciuti e misteriosi vanno a formare un bel quadro che può essere interessante da ammirare e sondare nella sua stratificazione. Viceversa però nel prosieguo del film la gestione dei tempi diventa monotona e, unita alla mancanza di compattezza, finisce per far degenerare l’ultima parte di un’opera comunque brevissima (70′, sensibilmente meno della canonica ora e mezzo) in una sorta di parodia di un mondo-movie. Forse, all’interno della sezione della SC, quello che lascia più rimpianti e meno delusioni, ma comunque certamente, assieme ai fratellini, non all’altezza di quello che dovrebbe essere uno dei più importanti festival europei.