Tra le ultime delle comunque molte opere prime a cui è stato dato spazio in questo 71esimo Locarno FestivalCeux qui travaillent si configura fin da subito come una delle meno pretenziose, mettendo in scena una classica storia di lavoro e abnegazione che finiscono per distruggere una famiglia. Frank Blanchet è il tipico self-made man contemporaneo, fattosi largo sgomitando e calpestando senza alcun rispetto per il prossimo, che finisce per essere licenziato quando prende la decisione sbagliata in una situazione estremamente critica. Costretto a ripartire da zero, l’unico ponte che gli resta con un mondo che non sia quello del noleggio dei cargo è la sua figlia più giovane, dalla quale non è mai stato (o ancora stato) abbandonato.

In verità Frank si rapporta con le persone, continuamente invero, solo che lo fa al telefono, o tramite bluetooth, mentre guida. Le sue telefonate scandiscono la noiosissima routine da workaholic che lo consuma giorno dopo giorno. Il suo azzardo non viene premiato perché, alla fin fine, stanco, spossato, non poteva pretendere di avere una tale lucidità da prevedere tutto, è al limite; ciononostante, viene comunque licenziato, facendo sì che la sua mission diventi quella di recuperare il rapporto con la sua ultimogenita, unico appiglio rimasto nel mare di indifferenza nel quale è perso. Olivier Gourmet è un caratterista, riciclatosi in quest’occasione protagonista assoluto, che ben si presta a questo ruolo, con un interpretazione convincente, in grado di restituire sia la freddezza calcolatrice del personaggio di Frank che il suo essere pedina in un sistema più grande, molto più grande, della sua persona. Per questo la prima parte di film, quella successiva al “You are fired!”, si giostra tra la solita critica all’acqua di rose della competitività moderna – tra le poche eccezioni per quanto riguarda questo aspetto bisognerebbe sempre ricordarsi di segnalare La mano invisibile, autentico gioiellino – e una compassione delicatamente velata per la figura del protagonista, di fatto connivente del sistema produttivo contemporaneo ma, nell’atto iniziale del film, anche vittima dello stesso, quando esso si mostra come quella brutale macchina che non può in alcun caso ammettere errori.

La prima cosa che Frank fa dopo il licenziamento è spogliarsi, anche in senso letterale, di tutto quello che si stava portando sulla schiena, finalmente può liberarsi da quell’armatura che vestiva ogni mattina, di cravatta e auricolare, delle scarpe di manifattura italiana e dal completo su misura (per vendersi meglio) e tentare di riprendere l’unica cima che può ancora raggiungere, in modo da lasciare qualcosa a chi verrà dopo di lui, per farsi ricordare come persona e non come ingranaggio. Il film non è però un Kaseki del discount, si concentra, con merito tutto sommato, sulla parte che concerne la sfera del mondo del lavoro, concentrandosi sempre su Frank e poi, in sua funzione, sul rapporto ritrovato con la figlia piccola. Proprio quest’ultimo elemento è il più difettoso del film, gestito in modo banale è anche in un modo in cui è tangibile la mancanza anche solo di una generica volontà di fare qualcosa in più: è un fattore messo lì alla stregua di un oggetto di scena, un espediente semplificato particolarmente irritante, specie in quei momenti con ambizione di leggerezza che invece trasformano alcune sequenze del film in una pubblicità progresso degli anni ’90, non riuscendo a mostrare questo nuovo volto di Frank in contrapposizione al cinismo su quella faccia sempre contratta dalla mascella serrata dei primissimi minuti dell’opera.

In sostanza, il film non di distingue troppo dal rapporto tra Frank e sua moglie – divorziati, come il film è divorziato. In Ceux qui travaillent ci sono due anime lontane forzate nel medesimo involucro. Non è male amalgamato, è un piatto di carne fatto film, da una parte la bistecca, dall’altra il contorno, senza una struttura unitaria. In fondo è un’opera prima solida e non troppo malvagia, ma lascia la sensazione, pur nella sua semplicità, di aver conservato intatte delle potenzialità purtroppo inespresse, come se Russbach non avesse voluto voluto esagerare, come se si fosse trattenuto dall’essere “troppo” (ovviamente senza alcun pericolo di rivelarsi tale). Un film passabile, con il braccino in alcuni punti, ma passabile.

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