Serrata dialettica e cinema-paesaggio, non vale la pena tentare di uscire dalle chiavi di volta dell’ultimo decennio del cinema di Ceylan per approcciare questo L’albero dei frutti selvatici. Certezza intramontabile di un cinema nazionale che nonostante i recenti stanziamenti di fondi non riesce a spiccare nei circuiti festivalieri – mancanza sulla quale forse sarebbe opportuno aprire una piccola parentesi in termini di fondi per la propaganda -, l’autore turco torna sui suoi passi senza involvere, ripropone il tragitto abituale scongiurando il pericolo della ripetizione.
Il primo ritorno è strettamente pratico, dato che vede il nostro calcare di nuovo la Croisette a quattro anni dal trionfo de Il regno d’inverno; è necessaria invero parecchia arroganza per non farsi vedere più a Cannes dopo essere stati premiati con il massimo riconoscimento – sia sempre lode a Malick. Ma, tornando a noi, si può dire senza timore di scivolare nell’anamnesi capziosa che, come in un’equazione, L’albero dei frutti selvatici si pone rispetto proprio dalla Palma d’Oro 2014 allo stesso modo in cui C’era una volta in Anatolia prendeva le mosse da Le tre scimmie, per genere, per gestione dei tempi, per incaponimento su alcuni contenuti. Il protagonista è come nella scorsa occasione un’anima costretta dal proprio corpo a un tiro di passaggio sentito irrimediabilmente come un qualcosa di meschino. Sinan è di fronte al cruciale passaggio all’età adulta, e da rampollo della decaduta classe media appena laureatosi vorrebbe ritagliarsi ora il ruolo di scrittore, ma quel contesto socio-culturale-familiare che disprezza sembra non essere disposto a riconoscergli questa superiorità, prima nelle vesti del padre, poi in quelle dell’imam, e ancora dietro il bacio violento della vecchia fiamma adolescenziale, o lo sfogo di un vecchio scrittore, la pedanteria moralistica del Trimalcione locale.
Perché attraverso i vari spezzoni episodi in cui è diviso il film emerge il ritratto di un giovane arrabbiato, rancoroso, pure ansioso di armarsi contro il prossimo da quanto cova geloso il proprio orgoglio, talmente concentrato sulla bruttura che lo circonda da dimenticarsi di essere un bravo figlio del suo ambiente. Non a caso la sua verbosa polemica in più occasioni finisce per rivolgersi contro quel padre ludopatico che ai suoi occhi rappresenta solo che una degenerazione, o contro la madre, rea persino di averlo sposato, quell’uomo. Le varie sequenze dialogiche che compongono il film sfociano in una verbosità volutamente insistita, che costringe a prestare ascolto all’abisso afasico nel quale sprofonda Sinan parola dopo parola, irritato per non riuscire a imporre dialetticamente la propria ragione nonostante sia convinto delle sue riflessioni al punto da considerarle quasi ovvie, indubitabili.
Un blocco sui generis, intimo e abietto, quello che descrive NBC, che non esplode le contraddizioni ma le gratta, trasformandole piuttosto in infezioni, insopportabili ma mai risolutive. Smarrito nel suo nuovo alveo di scrittore di una provincia che in fondo detesta, il giovane turco sperimenta a livello esistenziale la fatica nell’atto dell’espressione di sé. L’albero dei frutti selvatici è anche questo, un continuo spingersi nella direzione della ricerca di un sistema di soluzioni veramente funzionale all’interpretazione univoca del mondo circostante – è parimenti vero d’altronde che su questa chiave narrativa Ceylan si adagia un po’ più del dovuto. Lo fa sempre per amor di concetto, per carità, cioè per calcare la mano sull’indolenza della parlata di Sinan, sul suo arrocco puerile davanti ad alcune grandi questioni, ma esagerando in qualche occasione, su tutte il dialogo con l’imam e l’amico di questi. Ricorda a tratti l’Assayas di Doubles vies e il suo divertito perseverare della forma dialogica fuori da un contesto opportuno che prima trova il suo senso d’essere proprio nello scavalcare i limiti ma finendo per compiacersi troppo nell’esercizio si perde oltreconfine.
In un punto di vista più ampio, si ha l’impressione di un Ceylan che perde a tratti le redini. Proprio lui, che sembra capace di curare gli esterni ancora meglio degli interni, di ottenere obbedienza, per simmetria estetica, per coordinazione degli elementi e dei momenti, dal paesaggio e dalle sue trasformazioni. In questo caso si lascia andare, forse per evitare, a costo di non essere perfetto, di canonizzarsi, di riproporsi come un cineasta autoreferenziale. E questo piccolo passo indietro consente dei contrappesi, giustapponendo a ogni scivolata una scena di forte impatto, ancorché calata perfettamente nel contesto e preparata a dovere: la scena finale del presagio funereo del pozzo dopo tante corde, burroni e acque profonde disseminate qua e là durante le tre ore abbondanti del film legittima in un sol colpo una lunghezza non del tutto giustificata, e non nemmeno l’unico picco di questo tipo.
L’ultimo film di Ceylan non esce dalla dimensione consueta dell’autore ma è una grande storia su un altro impasse, un altro ostacolo che non trova mai estrinsecazione da quanto è intimo ma che si fa sentire sempre. Come un pozzo che nella propria immagine unisce corda, profondità e acqua, L’albero dei frutti selvatici colloca sullo stesso piano una sorta di determinismo al quale è impossibile sottrarsi, l’angoscia delle scelte e quella componente infruttuosa dello scontrarsi ripetutamente, con gli altri, con se stessi. Attraverso la consueta paesaggistica che comunica con noi più dei personaggi tramite quei movimenti che vengono scelti per accompagnare la routine di questo piccolo villaggio rurale nei pressi dell’antica Troia e la martellante ricerca della parole giuste, lo sbattere contro le barriere comunicative, sociali, culturali, umane, Ceylan cala l’impotenza misera che ogni persona sperimenta in buona parte della sua vita in una dimensione che nel voler fuggire dalla bruttezza, si fa a sua volta così brutta, così meschina, che a immergervisi si guadagna giocoforza in consapevolezza.