Vincitore dell’Orso d’Argento alla Miglior Regia a Berlino, L’Isola dei Caniin sala dal primo Maggio – rappresenta la seconda, riuscita incursione nel cinema d’animazione di Wes Anderson, che scegliendo come palcoscenico per la sua favola adulta l’arcipelago giapponese riconferma il suo talento visionario mettendolo al servizio di un’estetica da sempre presente sotto traccia nella sua filmografia.

Corre l’anno 2037. Approfittando della paura generata dal dilagare dell’influenza canina, il corrotto sindaco KobayashiNomura Kunichi – emana un editto che condanna all’esilio su un’isola-discarica tutti i cani della città di Megasaki. Tra questi c’è anche SpotsLiev Schreiber –, il cane da guardia di suo nipote AtariKoyu Rankin –, il quale non si dà per vinto e a bordo di un piccolo aeroplano raggiunge l’isola per trarre in salvo l’amico a quattro zampe. Aiutato da un quintetto di cani capitanato da un misterioso randagio neroBryan Cranston –, Atari cercherà di salvare i poveri animali prima che il folle piano dello zio si compia.

isle of dogsEra da Fantastic Mr. Fox (2009) che non vedevamo l’ora che Anderson tornasse a cimentarsi nella stop motion ed è sicuramente valsa la pena di attendere tanto a lungo, a cominciare dai pupazzi: affidati nuovamente alla maestria di Andy Gent e del suo team, sono stati realizzati in plastilina e silicone su armatura snodabile interamente a mano senza l’ausilio di stampanti 3D. Solo di volti ne sono stati creati più di 7000, senza contare il lavoro certosino svolto coi panneggi dei costumi e con le fibre di peli e capelli inserite una a una nel cuoio dei burattini.

E se già questo sarebbe sufficiente a lasciare a bocca aperta lo spettatore, di fatto non è che la punta dell’iceberg. Con qualche avvertenza preliminare, il regista ci catapulta in un mondo alieno dove gli esseri umani «parlano nella loro lingua madre», ovvero il giapponese. Salvo qualche mediazione offerta da traduttori simultanei – umani o elettronici, a loro volta personaggi della vicenda –, la dimensione verbale è per chi guarda incomprensibile: ne consegue che il nostro modo di vedere e di seguire la storia si allinea non con i nostri simili, ma con i cani che dialogano in italiano – o in inglese, se facciamo riferimento alla versione originale.C’è nella critica anche chi ha voluto riconosciuto in questo espediente una forma di otherization offensiva nei confronti del popolo giapponese, ma valgono le attenuanti del caso: non si tratta infatti di spettacolarizzazione/ridicolizzazione dell’altro atta semplicemente a rinforzare la percezione di estraneità. Certo è innegabile che si tratti di un effetto collaterale connesso allo sguardo esotista di Anderson sul Giappone, ma il discorso sulla parola è molto più raffinato: riproponendo una geniale intuizione di Fantastic Mr. Fox, si tratta di una strategia per mettere in luce come gli esseri umani – e non per forza gli abitanti dell’arcipelago con la loro strana lingua – siano le vere bestie. La pietà, il raziocinio e tutte le facoltà “umane” sembrano addirsi più ai cani reietti che agli uomini, i quali anzi vogliono eliminare coloro che queste qualità possiedono – i cani appunto, ma anche il prof. Watanabe e il suo gruppo di ricerca al lavoro sul vaccino per l’influenza.

L’Isola dei Cani è un film che procede per binomi e sdoppiamenti: sul piano del significato, sul piano visivo e su quello narrativo. Abbiamo cioè al centro, come si è già detto, la contrapposizione cani/uomini, con Atari a far da tramite tra i due universi. Questi universi seguono ognuno il proprio binario per poi congiungersi nel finale: da un lato la ricerca di Spots da parte di Atari, che è in realtà più ricerca del sé da parte del cane che lo guida; dall’altro la ricerca di Watanabe e seguaci, che è ricerca scientifica e più in generale della verità sul malvagio piano di Kobayashi. Per tradurre questo in immagini Anderson propone frequenti split screen e invita il fruitore a contemplare ogni angolo dello schermo, moltiplicando i punti di attenzione: in una scena tipo, avremo Kobayashi che sta facendo il suo discorso, mentre il traduttore tradisce nel tono della voce la propria indignazione; al contempo, lo schermo alle spalle dell’oratore mostra il filmato – a sua volta un film nel film – dei cani infetti e la resa schematica del progetto di evacuazione. Ed è incredibile notare come spesso tutti questi elementi convivano all’interno della stessa inquadratura. Anderson rende così coprotagonisti i media e ne esibisce i mezzi cui si affidano– macchine da presa, microfoni, proiettori –, sottintendendo come la verità ufficiale sia frutto di una manipolazione più o meno evidente dell’immagine e della parola, sia scritta che detta: un problema connesso alla situazione odierna del Giappone, dove il dibattito politico e storiografico – in cui non sono rare le tendenze conservatrici e negazionistiche – lascia intravedere un futuro pericolosamente simile a quello della Megasaki andersoniana.isle of dogsAnderson però bilancia questa saturazione, svuotando all’improvviso l’inquadratura e creando attraverso il montaggio effetti di contrasto da un fotogramma all’altro. Vuoto che, assieme alle influenze stilistiche del cinema classico giapponese – Kurosawa ma ancor prima Ozu –, si sposa con i riferimenti alle arti tradizionali, riprese con simpatiche parodie come la battaglia tra cani e gatti dell’incipit, ritratta su quello che potrebbe essere un byōbu (paravento) o un emaki (rotolo illustrato), o ancora gli haiku con le allusioni stagionali raffazzonate.

L’Isola dei Cani pecca inevitabilmente di esotismo e non regge il confronto con la precedente pellicola animata di Wes Anderson ma rappresenta una prova brillante del genio di quest’ultimo, capace di confrontarsi armoniosamente con una tradizione così complessa e di riportarla con cognizione di causa sul grande schermo come solo lui sa fare. Dispiace soltanto che nella versione italiana non sia possibile apprezzare il cast stellare di doppiatori, cui si è cercato di rimediare coi rispettivi doppiatori nostrani.