Lungometraggio d’esordio dell’artista e accademico Xu Bing, Qing Ting zhi yan – titolo internazionale Dragonfly eyes – rappresenta un ardito esperimento di video-editing e scrittura cinematografica in cui l’autore cerca di dare coerenza narrativa a innumerevoli filmati di telecamere di sorveglianza.
Qing Ting – nome che significa appunto «libellula» – si trova in un monastero buddista per diventare monaca, ma alla fine rinuncia ai suoi voti. Assunta presso una fabbrica, fa la conoscenza di Ke Fan, il quale per dimostrarle il suo amore commette un atto sconsiderato finendo in manette. Una volta a piede libero, scopre che Qing Ting si è sottoposta a un intervento di chirurgia plastica raggiungendo la fama come webstar che risponde al nome di Xiao Xiao. A causa di un commento salace, la ragazza sarà crocifissa sui social e portata al suicidio: per sopravvivere al dolore, Ke Fan deciderà di reinventarsi.
Come spiegato dalla didascalia in apertura, il regista già da diverso tempo aveva in mente di realizzare un film con video di sorveglianza, ma le autorità gli avevano negato l’accesso ai database: questo fino al 2015, quando tutto il girato è stato leakato in rete, rendendo fattibile il progetto.
La libellula, con i suoi 28mila occhi che osservano senza posa, è omologo ideale, nel mondo animale, della rete di videosorveglianza che non conosce limiti di privacy e arriva ovunque. Questa entità si rivolge con voce metallica allo spettatore, si intromette con i suoi interventi mostrando estratti di incidenti, catastrofi naturali, momenti di intimità, a dimostrare come ormai sia lei stessa burattinaio delle nostre vite e depositario della nostra memoria.
L’angoscia dell’autore per questa deriva tecnocratica si traduce in racconto grazie alla mediazione degli sceneggiatori Zhai Yongming e Zhang Hanyi e dei doppiatori, che permette di riconoscere un disegno unitario nel mutare di volti, luoghi, tempi. La storia di Qing Ting è costruita come una parabola del discorso identitario nell’era digitale: Ke Fan la apprezza per la sua bellezza ordinaria, ma con amara ironia sarà poi la prima a capire quanto l’immagine conti ben più dell’essenza. Anzi, l’essenza svanisce: Qing Ting diventa a tutti gli effetti un’altra persona dimentica della precedente esistenza grazie al bisturi, e nulla impedisce a Ken Fan di assumere dopo l’operazione non solo le fattezze ma anche l’identità della defunta, ingannando persino la monaca che l’aveva avuta come novizia.
In questo senso, si capisce perché la vicenda abbia inizio e quindi fine in un monastero: la società contemporanea, con il suo feticismo per l’apparenza, riflette il trionfo del mondo dell’illusione da cui il Buddha aveva sempre messo in guardia. Ne deriva una visione crepuscolare, in cui all’uomo è preclusa ogni possibilità di riappropriarsi di se stesso e pertanto di pervenire alla verità: non può trovarsi e di conseguenza intraprendere il percorso spirituale che nella dottrina conduce all’abbandono di tale concezione.
E chi guarda è complice di questo processo: è evidente che non c’è alcuna continuità, che Qing Ting zhi yan altro non è se non un arbitrario collage di situazioni svincolate l’una dall’altra, eppure sospendiamo di buon grado il nostro giudizio, ci lasciamo ingannare, perché non importa quante siano le incongruenze, la trama funziona. La conclusione cui l’autore vuole portarci è forse che nell’umanità 2.0 ciò che importa è la coerenza del sistema, a prescindere dal fatto che i suoi componenti minimi – gli individui – abbiano una loro sussistenza ontologica o meno.
Per Xu Bing si tratta senza dubbio di un esordio valevole, soprattutto se si guarda a come ha saputo reinventare lo stock footage a disposizione, senza cedere alla tentazione di fissarsi sull’aspetto polemico. Resta forse un po’ rozzo e pretenzioso, ma la speculazione che vi si può fare è tutt’altro che banale.