Presentato nella sezione Piazza Grande, The Song of Scorpions è il terzo lungometraggio dell’indiano Anup Singh, un mélo convenzionale ma guardabile che con una rosa ridotta di interpreti mette in scena un dramma umano tipico del genere.
Nooran – interpretata dall’iraniana Golshifteh Farahani – vive in un villaggio Sindhi del Rajasthan, dove è destinata a sostituire la nonna Amma nel ruolo di guaritrice. Udito per caso il suo canto durante una traversata nel deserto, il mercante di cammelli Aadam – l’onnipresente Irrfan Khan – se ne innamora perdutamente ma viene rifiutato. Aadam non può tollerarlo e chiede a un sottoposto di violentare la ragazza per farla coprire di vergogna, rendendola di conseguenza alla sua portata. Il piano riesce ma Nooran scoprirà la verità, mettendo in atto la sua vendetta.
L’intreccio è dei più classici: un amore non corrisposto porta alla violenza, quindi alla vendetta che travolge ambedue le parti. Lo stesso vale per il palcoscenico, un luogo fuori dallo spazio e dal tempo, una cornice esotica in cui le cose sembrano non cambiare mai: la stessa umanità che vi si trova è quella genuina, incorrotta, timorata di dio e legata alle tradizioni. Ma al di là delle dune, suggerisce il regista, il mondo moderno non fa che minacciare questo “habitat del buon selvaggio”: benché Aadam non sia un uomo veramente malvagio, egli è colpevole di non saper controllare le proprie pulsioni e accettare lo stato delle cose – al contrario di Nooran, che ha imparato a sottomettersi al volere della comunità – , finendo per fare del male alla persona per lui più importante.
Seppur mitigandoli con la consueta epicità e senza mostrare troppo, vengono affrontati temi forti quali l’abuso sessuale, la segregazione femminile e l’ostracismo sociale, esaltando l’abnegazione della protagonista che riuscirà ad avere la meglio sull’egoismo del genere maschile incarnato dal personaggio di Aadam. The Song of Scorpions non si allontana dalla tradizione del cinema popolare indiano, dando particolare rilievo alla musica – le canzoni originali eseguite da Nooran che suonano come nenie millenarie – , ai costumi – gli abiti sgargianti dei Sindhi – e ai colori – i toni sono in prevalenza luminosi e la maggior parte delle scene, anche drammatiche, sono girate in esterno giorno, con campi lunghi dello stupendo deserto del Thar.
Con una buona dose di ironia tragica – dal momento che lo spettatore è al corrente del mandante dello stupro – , Anup Singh lascia che il film si avvolga su se stesso, nel tentativo di ingenerare la massima empatia prima di sorprendere – sorpresa che di fatto non è tale, ma che si regge come sempre su un tacito accordo stipulato tra autore e spettatore – con il finale a effetto, cui vero protagonista è lo scorpione, il motore primo della serie di eventi: Nooran conosce Aadam mentre cura un moribondo che ne è stato punto e a sua volta Aadam lo userà per uccidere il complice, sicché sempre all’aracnide spetta il compito di mettere la parola «fine» alla vicenda.
Tutto sommato, The Song of Scorpions è una pellicola di narrativa non malvagia e appetibile per un pubblico occasionale in cerca di intrattenimento, ma insipida forse persino per gli appassionati del melodramma e decisamente da evitare per chi fosse in cerca di uno sguardo autentico sull’Oriente. Dimenticabile.