Con pudore, nella prima inquadratura del biopic Maria Pablo Larraín nasconde il corpo esanime della “Divina”. Lo spettatore non è ancora pronto a condividere questa confidenza, almeno non prima di ripercorre cinematograficamente l’ultima settimana della vita ricca e travagliata della cantante lirica più celebre di sempre.

La storia inizia, o finisce, il 16 settembre 1977 a Parigi. Maria Callas (Angelina Jolie) è provata nel corpo e nella mente dall’abuso di farmaci e da un’esistenza tanto gloriosa quanto logorante: l’infanzia difficile, lo squilibrio di un’immagine pubblica prima idolatrata e poi messa in discussione, l’esperienza sentimentale dolorosa, la condanna di una voce in declino. Assistita dal fedele maggiordomo Ferruccio (Pierfrancesco Favino) e dalla mite domestica Bruna (Alba Rohrwacher), Maria sceglie infine di prendere in mano allo stesso tempo la propria vita e la propria morte.

Il cast di “Maria” – Foto di Romina Greggio

Dopo Jackie e Diana (Spencer), ecco Maria. In un’ideale circuito narrativo (Jacqueline Bouvier è il punto di contatto storico ed emotivo tra la prima e l’ultima opera), si conclude la sentita trilogia del regista cileno dedicata a complesse figure femminili che hanno influito in modi diversi sulla Storia del Novecento. I panni – scomodi – di Callas, diva delle dive, icona della lirica e del jet set, sono indossati con rischioso mimetismo da Angelina Jolie, che con la cantante di origini greche condivide quantomeno la notorietà mondiale.

La scommessa di Larraín nasce proprio dall’identità divistica incarnata dalle due artiste, anche se esercitata in modi e tempi certamente molto differenti. Questa iconica correlazione non viene mitigata da trucchi prostetici per far assomigliare l’attrice premio Oscar a Maria, come tradizione hollywoodiana vorrebbe. L’effetto stilistico ha conseguenze ambivalenti: da una parte la massima libertà per la protagonista di attingere alla propria essenza divistica nella vita reale e portarla nella storia; dall’altra impegnare chi guarda ad accettare la sfida di mettere da parte i volti inconfondibili delle due star e lasciarsi guidare da un approccio più emozionale.

Angelina Jolie – Foto di Romina Greggio

Di certo la prova attoriale di Angelina Jolie è di grande impatto e regala alcuni momenti di autentico coinvolgimento, nonostante la scelta ibrida, forse inevitabile, di unire le performance canore originali di Callas (nei flashback) a quelle, a loro volta “addomesticate”, della stessa attrice, coraggiosa nel cimentarsi con questa missione impossibile, pur inserendosi nelle imperfezioni tonali degli ultimi giorni di Maria Callas. L’espediente storico-vocale è funzionale a un racconto composto e canonico, come forse mai prima nella filmografia di Larraín: la proiezione di universi possibili e immaginari in grado di scomporre e decostruire le immagini e le vite di donne larger than life, propria dei film precedenti della trilogia, lascia spazio a un’impostazione più convenzionale.

Così un Larraín quasi ordinario e lineare, circondato da abilissimi collaboratori (Steven Knight alla sceneggiatura e Ed Lachman alla fotografia), compone un quadro sontuoso e delicato, ma che non ha la forza di uscire da quello che in fondo ci si può aspettare da un onesto biopic sulla vita di una delle più straordinarie figure dei nostri tempi.