Jackie Kennedy fu First Lady degli Stati Uniti d’America per due anni, dieci mesi e due giorni. Su Jackie prima e dopo Kennedy è stato detto e scritto tutto, rappresentato forse troppo.

Il regista cileno Pablo Larraín, narratore delle tragiche vicende storiche del suo paese, di complessi sentimenti e di personaggi forti, nel bene e anche nel male, ritrae Jackie Lee Bouvier neo vedova Kennedy. Larraín e lo sceneggiatore Noah Oppenheim si concentrano sul momento immediatamente dopo i feroci spari di Dallas contro il Presidente, fino al suo funerale.

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Con la tipica narrazione che contraddistingue il realismo non convenzionale del regista, Jackie è un lavoro di fiction che immagina il dentro le mura dopo la tragedia, vissuta dalla più giovane delle 29 First Lady che hanno abitato nella Casa Bianca.

“Non volevo la celebrità, poi sono diventata una Kennedy” è quello che Jackie (stupendamente interpretata da Natalie Portman) racconta a un reporter qualche tempo dopo il funerale. Larraín sviluppa brillantemente le sue tesi: la comunicazione può diventare politica e il potere dona il mito. Da questa intervista, voluta dall’ex First Lady, il film si snoda in ricordi, freddi frammenti, non tutti cronologici; alcuni brevi e accennati momenti della vita glamour della coppia presidenziale, Dallas e gli spari, la corsa in ospedale, la bara, il tempo per piangere e per lavare via il sangue, l’autopsia, il corteo funebre, i bambini, la stampa, il cognato Bob, il nuovo Presidente, le confessioni a puro cuore aperto a un prete. Una donna forte nella perdita, decisiva nel mantenere vivo il fuoco immaginifico di una Camelot dei Kennedy.

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Vegliata con rispetto e stima dall’assistente Nancy (Greta Gerwig), Jackie persegue lo scopo di difendere il presidente Kennedy dall’oblio, per farlo sopravvivere ai futuri presidenti, per farlo ricordare da chiunque. E il funerale, quindi, deve essere degno per gli Ideali di cui si è fatto ed è diventato simbolo.

Questo film non ha confini e non ha bordi nel provare a descrivere e sfumare i sentimenti. Jackie, caustica nei confronti di chi la circonda, spaventata, soprattutto per i figli, organizza per il marito un funerale come quello di Lincoln. Al capo di Gabinetto di Johnson che le domanda “Perché sta facendo questo?”‘, lei risponde: “É il mio lavoro”.

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Larraín non toglie il velo di mistero che avvolge Jackie, sulla quale tutti pensano di poter dire qualcosa. Il dolore sfacciatamente privato eppure così dannatamente pubblico, va di pari passo con la storia, la politica e la costruzione di una fiabesca Camelot.

Dalla fotografia alle musiche (Mica Levi), Larraín vince la sfida nel raccontare l’illusione di una dinastia dal punto di vista di un membro acquisito, poi diventato il più famoso della famiglia stessa: Jackie.