In sala dal 14 al 20 Giugno grazie a Lucky Red, Mary e il fiore della strega (2017) è il primo vagito dello Studio Ponoc fondato dal veterano Hiromasa Yonebayashi, che contrariamente alle aspettative in questa sua terza regia si dimostra incapace di intraprendere con profitto un proprio percorso autoriale senza il guinzaglio del padre padrone Hayao Miyazaki.

Preda della noia estiva, la piccola Mary inizia a girovagare nel boschetto adiacente alla tenuta della zia, dove si imbatte in un misterioso fiore blu. L’indomani, nel tentativo di liberare una scopa dal groviglio di radici di un albero, finisce per schiacciare uno dei grappoli fluorescenti del fiore: in men che non si dica Mary si ritrova a bordo della scopa in volo verso un castello fluttuante. Qui viene accolta da Flanagan, sorta di tanuki parlante che, scambiandola per una “matricola”, la invita a entrare: si tratta dell’Accademia Endor, riservata ai migliori maghi. Per evitare ripercussioni, Mary sta al gioco e fa la conoscenza della preside Mumblechook e del professor Dee, che rimangono sbalorditi dalla sua abilità negli incantesimi, acquisita, come confessato da lei stessa, grazie al nettare del fiore blu. Ecco che il sogno si tramuta in incubo, con Mumblechook e socio che rapiscono Peter, unico amico di Mary, ricattandola per (ri)avere il fiore.

mary e il fiore della strega

Con Quando c’era Marnie (2014), primo e ultimo lungometraggio Ghibli a vedere la luce dopo il ritiro del sensei, Yonebayashi aveva lasciato ben sperare, sia per l’immaginario genuinamente europeo cui attingeva, sia per l’approccio disincantato con cui affrontava i temi della memoria e del nido familiarepunto di contatto con Takahata. Coerentemente con il film precedente, il soggetto su cui si basa Meari to majo no hana è il romanzo per ragazzi The Little Broomstick (1971) dell’inglese Mary Stewart, ma quando si viene alla gestione della materia narrativa e all’impianto visuale, coi quali Yonebayashi avrebbe dovuto, se non troncare di netto col maestro, quantomeno affermare e motivare la propria indipendenza artistica, si scade in una serie di imitazioni dozzinali del periodo d’oro dello studio di Koganei.

mary e il fiore della strega

Non che l’imitazione in sé e per sé sia sinonimo di scarsa qualità: parlando di Makoto Shinkai, avevamo già evidenziato come Viaggio verso Agartha (2011) potesse essere considerato a buon diritto la sua prova migliore ante-Your Name, per quanto povera di sostanza autoriale. Ma per Mary e il fiore della strega non vale nemmeno quest’ultima attenuante: la spinta ossessiva verso l’originalità permane sottopelle, producendo un risultato difforme dalle pietre miliari cui tenta di rifarsi e deforme nel complesso. L’esempio più lampante di tale binomio sfortunato è il character design: Mary con la sua scopa e il gattino nero è una versione ginger di Kiki, mentre nel professor Dee, macrocefalo e munito di ragno meccanico, e nella preside Mumblechook, è impossibile non riconoscere rispettivamente Kamaji e Yubaba de La Città Incantata (2001), senza contare che Peter viene metamorfizzato in una sorta di Howl. L’emulazione è però sistematica e si estende ben oltre i personaggi principali: le creature volanti lanciate da Mumblechook all’inseguimento di Mary sembrano prese pari pari dall’universo di Ponyo sulla scogliera (2008), la casa delle streghe dell’epilogo è munita di un Calcifer, e la stessa Accademia Endor è una sorta di Laputa con tanto di creature d’argilla come attendenti. E le poche volte che Yonebayashi prova a far davvero di testa sua non produce che risultati anonimi, come le creature mutanti degli esperimenti di Dee o il già citato Flanagan.

L’elenco potrebbe continuare, ma proviamo a guardare a come le costanti della narrazione miyazakiana siano state banalizzate: di base, abbiamo un’eroina, orfana o con legami temporaneamente recisi, che da passiva diventa attiva fino a raggiungere la maturità, conquistandosi l’inclusione in una certa comunità e il ripristino o l’instaurazione dei suddetti legami. Inutile dire che per andare da un estremo all’altro sono necessarie prove intermedie e personaggi di contorno, funzionali all’evoluzione della protagonista. Mary e il fiore della strega invece brucia continuamente le tappe in un verso e nell’altro, facendo la spola tra un paio di ambientazioni che da un punto di vista grafico sono decisamente perfettibili, cosa che non ci si aspettava da un animatore di lungo corso come Yonebayashi. Si va da zero a cento, con Mary che da imbranata e sola si ritrova a essere la migliore di sempre, accettata nell’Accademia senza nemmeno una verifica preliminare – primo vizio della scrittura della coppia Sakaguchi-Yonebayashi –, e da cento a zero, con l’effetto del fiore che svanisce e l’impotenza dinanzi al rapimento di Peter, salvo poi schizzare di nuovo a cento grazie a un grappolo superstite. Demandando sempre più funzioni al mezzo magico – che nell’economia del racconto risulta sproporzionato rispetto alla funzione ricoperta –, il regista rinuncia così in partenza all’evoluzione dei suoi personaggi, protagonista in primis.

mary e il fiore della strega

Mary e il fiore della strega ha tuttavia nei suoi 102 minuti un momento che riesce a convincere: la sezione della visita guidata all’accademia. Nello specifico, si tratta di un minutino o poco più, esilarante e nonsense, in cui Mary viene condotta nell’area svago: maghi palestrati con maschere da kaonashi che sollevano bilancieri, scivoli d’acqua, e una mensa dove animali antropomorfi servono agli avventori altri animali come pietanza, cucinandoli con la magia. Quest’umorismo da gag, che di fatto non apporta niente alla narrazione ma funziona, è l’unico discriminein senso positivo – tra la prima pellicola targata Ponoc e la sterminata produzione di Miyazaki cui tenta di rifarsi.

Ci auguriamo che Yonebayashi scopra come liberarsi dai fantasmi “professionali” che ancora aleggiano nella sua opera – magari facendo leva proprio sulla componente comica? – e che in futuro sappia regalarci qualcosa di più di questa pellicola insipida, per quanto guardabile.