Ricordo che anni fa lessi sul muro di Ippoliti (ormai istituzione alla Mostra, il muro di Ippoliti è, letteralmente, una parete a cui vengono affisse delle recensioni negative dei film visti, al grido di “ridateci i soldi”. Alla fine del festival viene premiata la recensione più sagace e azzeccata) un commento al film di Kitano in concorso quell’anno. Se non sbaglio si trattava di Akiresu to kame, il capitolo finale della sua trilogia sul suicidio artistico, e il commento recitava più o meno così: “E anche Kitano, so ‘o semo giocato”.
Al di là del giudizio artistico su quella particolare trilogia – che io ho trovato di un’onestà disarmante, specialmente l’ultimo capitolo – il commento pare particolarmente premonitore se si pensa che l’opera successiva da regista è stata Outrage, presentato a Cannes, uno yakuza film freddo e impersonale che per moltissimi versi effettivamente esulava dalla consueta poetica di Kitano, poiché nato da una spinta puramente commerciale. Ce l’eravamo quindi davvero giocato, il maestro Kitano? Una domanda che era giusto porsi anche alla luce del fatto che, paradossalmente, questo film privato dell’anima kitaniana era diventato il suo maggior successo al botteghino, portando gli studios a improvvisare un sequel che non era inizialmente previsto (Otomo viene accoltellato in prigione alla fine, e lì la storia si sarebbe dovuta concludere).
Viene girato quindi Outrage Beyond, presentato a Venezia, che si dimostra coerente con il primo capitolo e mantiene la discordanza con il resto dell’opera di Kitano: Otomo si conferma un antieroe, interessato principalmente a sopravvivere più che all’onore, tradendo così molti dei personaggi interpretati in passato da Beat Takeshi. Per coerenza anche con il paradosso precedente, il film raddoppia gli incassi di Outrage, in barba a tutta l’autorialità apparentemente assente.
E si arriva dunque all’installment finale di questa trilogia che trilogia non doveva essere, in cui si può provare a rispondere alla fatidica domanda iniziale: Kitano c’è, o non c’è più? Per quanto mi riguarda, quest’ultimo capitolo è un canto del cigno che può portare alla rinascita della fenice (azzardatissimo mix di metafore aviarie), a seconda di come si decide di interpretare il finale…
Otomo (Beat Takeshi), dopo il finale di Outrage Beyond, in cui rabbiosamente uccideva il poliziotto Kataoka colpevole di aver istigato le faide interne alla famiglia Sanno portandola in guerra con gli Hanabishi di Osaka, si trova in un’isola al largo della Corea del Sud a gestire gli affari di Chang, il “fixer” coreano già incontrato nel secondo capitolo, un “facilitatore” dei legami tra Giappone e Corea. Hanada, uno yakuza in vacanza, picchia un paio di prostitute secondo lui “scadenti”, e uccide uno degli scagnozzi della banda di Otomo: quest’azione mette in moto una serie di eventi che porteranno Otomo a rientrare in Giappone, confermandolo come elemento fuori controllo che mette a dura prova sia la famiglia Hanabishi – che ha ormai inglobato completamente i Sanno – sia la famiglia Chang.
Sebbene sia il protagonista, Otomo ha incredibilmente poco minutaggio in un film che sembra, come i precedenti due, preferire concentrarsi sulle dinamiche interne alle famiglie di yakuza, ormai strutturate come aziende di Wall Street piuttosto che gruppi criminali (all’inizio del film, il gran capo degli Hanabishi, Nomura, convoca una riunione di tutti i vice e sottoposti, i quali, in sua assenza, commentano: “era un agente di borsa, se non fa una riunione ogni tanto non si sente contento”). Gli Hanabishi devono far fronte sia alla famiglia Chang – il cui distaccamento in Corea era gestito da Otomo, ufficialmente entrato sotto la loro protezione alla fine del capitolo precedente – sia alle faide interne che vedono opporsi il grande capo Nomura contro il vice capo Yoshino, che tramano nell’ombra per eliminarsi vicendevolmente. La macchina indugia quindi sui lunghi discorsi, discussioni su complotti che nascono e muoiono, alternandoli solo sporadicamente a dei picchi di violenza che durano poco più di un battito di ciglia. E anche quando presente, è una violenza lucida e impersonale, ben lontana dalla furia con cui Otomo uccide Kataoka.
Siamo di nuovo di fronte a strutture criminali che solo in apparenza seguono degli stretti codici d’onore, preferendo invece infrangerli puntualmente per seguire la logica del più forte, o del più scaltro. Anche in questo, Otomo è un outsider, è ancora uno yakuza vecchia guardia, di quelli che si tagliavano il mignolo per chiedere perdono, come infatti è accaduto (in questo terzo capitolo, la proposta di Hanada di tagliarsi il dito viene accolta con una risata da Yoshino: “e a chi diamine può servire il tuo mignolo?”, gli chiede). E se questa struttura quasi aziendale sembra ormai consolidata, non è però accettata da tutti, tanto è vero che la colpa imputata a Nomura è, per l’appunto, di non essere un vero yakuza, di non aver iniziato dal basso e di non essersi fatto un solo giorno di prigione. Insomma, un colletto bianco. E questo, pare volerci dire Kitano, è inaccettabile.
Allo stesso modo, Otomo sembra seguire le stesse logiche dei due film precedenti, un sottoposto agli ordini dei capi, salvo riprendersi il finale in maniera inequivocabile, quasi a voler dichiarare la sua rinata indipendenza artistica. O così mi piace credere.