Già vincitore nella sezione Orizzonti con No Date, No Signature (2017) a Venezia74, Vahid Jalilvand si riconferma con Shab, Dakheli, Divar (Beyond the Wall) uno dei talenti più promettenti del nuovo cinema iraniano, nonché una voce imparziale e indipendente circa le condizioni della sua patria, divisa tra il secolarismo e la superstizione religiosa, tra gli impulsi individualisti per il cambiamento e il collettivismo stritolante delle istituzioni, descritti nella presente opera per mezzo di un doppio parallelismo che è metafora della condizione degli oppressi – e della pressoché inesistente classe media.

Il tentativo di suicidio dell’ipovedente AliNavid Mohammadzadeh, già incoronato Miglior Attore di Orizzonti per il ruolo da protagonista nel lungometraggio precedente di Jalilvand – è interrotto dalla notizia del portiere che una donna – Dayana Habibi – in fuga dalle forze dell’ordine si è introdotta nel palazzo. Dopo i dubbi iniziali, Ali realizza che la fuggitiva si trova nel suo appartamento e che il suo unico crimine è stato quello di proteggere il figlioletto nel mezzo di una manifestazione finita in tragedia. Facendo del suo meglio per depistare il commissario di polizia e l’amministratore di condominio, Ali deciderà di mettere a rischio la propria vita pur di consentire alla sventurata di uscire dall’edificio indenne.

Beyond the Wall

Nel periodo della stretta sugli intellettuali della presidenza di Rouhani – giunta al termine lo scorso agosto –, il Lido, di concerto con gli altri festival europei, era stato un porto sicuro per i registi che, impossibilitati a partecipare perché fisicamente rinchiusi in una cella – tra le edizioni più recenti vogliamo ricordare Venezia73, dove Keywan Karimi riuscì a presentare in concorso alla SIC il suo esordio nel lungometraggio di finzione Tabl (Drum) (2016) nonostante la pena di reclusione e tortura. Un ruolo che, anche nelle mutate condizioni politiche della repubblica islamica – certo non più morbide verso chi contesta l’autorità, statale o religiosa che sia –, non è stato abbandonato, mantenendo un occhio di riguardo per una tradizione cinematografica che, a partire dai suoi più grandi interpreti – tra cui il compianto Kiarostami, Farhadi e Panahi –, continua a essere testimone di uno sguardo sempre in evoluzione non solo sullo stato delle cose in patria ma, più in generale, sullo stato del cinema come mezzo espressivo.

In questo senso, è da notare come Beyond the Wall imposti un discorso sul visibile a partire dalle sue premesse, con Ali che, ormai praticamente cieco – come ci è dato vedere dalle due soggettive dalla sua prospettiva, composte da sagome indistinte e macchie di luce –, è costretto nei confini della propria stanza, ma è in grado di vedere la realtà per quello che è, ovvero che l’inaspettata inquilina non è colpevole di nulla; per contro, i personaggi del commissario e dell’amministratore – personificazione di tutti i delatori e sicofanti che riforniscono di detenuti le carceri iraniane, veri motori del sistema grazie al quale le forze dell’ordine riescono a mantenere il paese in un perpetuo stato di emergenza, necessitato da non meglio precisati “terroristi” –, che ci vedono benissimo e non si fanno scrupolo ad approfittare della disabilità del sospettato, sono accecati dalla narrazione nazionalista, finendo per nuocere al loro stesso popolo mancando nei propri doveri fondamentali.

Beyond the Wall

Ricorrendo a un montaggio regressivo ben calibrato tra retrospezioni e avanzamento della storyline principale, fino al punto di svelare una composizione circolare che sottende la sostanziale identità tra vittima e carnefice – per effetto del medesimo gioco perverso sovra descritto, che tramite la paura e la condizione di mutua colpevolezza consente allo Stato di evitare la definitiva frattura sociale –, Jalilvand racconta lo stato di prostrazione psicologica dei suoi connazionali, arrivati a dubitare di tutti, persino di se stessi, e pertanto isolati come mai prima d’ora fino al punto di una chiusura mentale – ai principi progressisti, certo, ma anche alla scoperta della propria identità – che si traduce in sottomissione.

Benché optando per un finale forse fin troppo facile, che sostanzialmente disperde il moto digressivo-convergente del montaggio che tanto risultava avvincente, Beyond the Wall non è una richiesta d’aiuto che si rimette al pietismo per risvegliare le coscienze, ma un grido di orrore provvisto di un primo livello di interpretazione apertamente politico, stentoreo, intransigente, che ricorrendo a marche stilistiche e retoriche poco accomodanti riporta lo spettatore all’incubo della reclusione, che è condizione mentale, nonché fisica, di chi in Iran e nel mondo cerca di opporsi all’oscurantismo.