Come è ben noto, la Bosnia-Erzegovina è un paese dalla storia complessa e dalla strutturazione etnica a dir poco composita e complicata. Vi si accavallano e stratificano tradizioni religiose, odi etnici e culture politiche forse troppo centrifughe per poter essere inquadrate in una statualità unica e pacificata. Come si riflette tutto ciò nella topografia turistica del paese?
Il bosniaco Igor Drljaca decide di dipingere un affresco, un’istantanea in quattro parti, del suo paese, combinando e mettendo in serie quattro luoghi caratteristici per storia e tradizioni culturali. Il risultato è quanto mai composito e, a un primo sguardo, disomogeneo, soprattutto per certe lungaggini relative alla prima parte. Ma, riflettendo meglio su quanto visto, si giunge a valutazioni più positive: l’autore di Sarajevo, qui al suo primo lungometraggio documentario, riflette in fondo su come nascano nuovi culti e nuove dipendenze mentali, legate a luoghi fortemente indicizzati e semantizzati dal punto di vista culturale. Si tratta di Medjugorje, Tuzla, Visegrad e Visoko; se non c’è bisogno di spiegare l’importanza del primo sito per il turismo religioso connesso alla per lo meno controversa “apparizione” mariana, gli altri tre luoghi rivestono un’importanza sfaccettata e per certi versi sorprendente nell’ambito della (ri-)scoperta della ricchezza culturale di un paese le cui bellezze non si riducono alla bellissima capitale, al ponte di Mostar o allo scenografico canyon della Neretva (che già di per sé non sarebbe affatto poco).
A Tuzla vecchie miniere di sale sono state trasformate in laghetti artificiali che ricordano in piccolo e alla lontana i paradisi naturali della Slovenia, se proprio volessimo fare un paragone (ma questi bosniaci sono, appunto, artificiali e derivativi); nella località di Visoko invece lo spirito new-age la fa da padrone, dando vita ad una sorta di adorazione millenaristica di piramidi che sarebbero nascoste nelle colline circostanti, pronte ad irradiare “energia positiva”; a Visegrad infine si è costruito un nuovo “culto della personalità” dedicato al grande scrittore Premio Nobel Ivo Andric, supportato economicamente e ideologicamente da quel bel tomo (e diremmo ex-regista ormai) di Emir Kusturica, che ritroviamo anche dedicatario di un murales piuttosto kitsch in cui sono raggruppati ed osannati alcuni riferimenti fondamentali dell’identità serba, ivi compreso il campione Novak Djokovic (!?!). En passant, le “pietre parlanti” del titolo sono quelle dei monumenti vecchi e nuovi (dal Ponte sulla Drina alle recenti statue dedicate ad Andric, alle effigi dei mitologici “primi sovrani di Bosnia”…), che con la loro imponente presenza riecheggiano e rievocano secoli di storia frastagliata e non del tutto condivisa: più che una sinfonia di voci il timore è che ne esca uno scontro cacofonico di urla…
Che si tratti di tradizioni composite, eterogenee e anzi forse incompatibili (vuoi per motivazioni etnico-politiche, vuoi per convinzioni religiose inconciliabili) è ben evidente; che ciò sia un portato del “vuoto di valori” causato dall’implosione tragica della Jugoslavia e un tentativo di risalire la china spirituale dopo la tremenda guerra civile, è forse meno evidente a un occhio disattento, motivo per cui il buon Drljaca ha inanellato in questo suo altalenante ma interessantissimo esordio proprio questi quattro poli della nuova identità spirituale bosniaca. Pensandoci bene (pur senza abbandonarsi a una malintesa nostalgia) è triste che la Bosnia di oggi si debba frastagliare e parcellizzare su riferimenti spirituali per lo meno dubbi, fra fanatismi religiosi, turismo di medio livello (la zona delle miniere non è fra le più sicure…) e appropriazioni indebite di grandi autori mondiali come Andric.
Lo stile è osservazionale, con pochi interventi diretti autoriali e di commento, sebbene a dirla tutta l’insistenza (diremmo: il “compiacimento”) con cui nella prima parte il sarajevese si sofferma sulle superstizioni ultracattoliche medjugorjensi farebbe temere fortemente per il prosieguo dell’opera…che per fortuna si apre poi su altri orizzonti e lidi ideali, anche totalmente opposti. Ciò avviene per esempio quando sul finale risuona un canto rivoluzionario, “Papaveri rossi” di Mihovil Pavlek Miskina, che ci infonde tutt’altro entusiasmo e ispira un approccio ben più concreto e pratico alla realtà, in uno spirito antifascista e internazionale d’antan che (sebbene nel film vengano giustamente ricordati anche i crimini titini e la famigerata isola di Goli Otok) ci ricollega a ideali di fratellanza di un tempo che fu.
Tutto ciò non è però incanalato in binari vetero-nostalgici, tanto che la posizione autoriale non è univoca, ma riesce (con qualche salto mortale) a districarsi fra la simpatetica partecipazione e il distacco ironico: è come se Drljaca ci scodellasse davanti un menu composito e multicolore, dal quale sta ad ogni spettatore scegliere i gusti preferiti.