Quattro afroamericani veterani di guerra tornano in Vietnam, dopo 40 anni, per confrontarsi con un fantasma del loro passato, in una storia che mixa idee e generi: avventura, guerra, melodramma (padre/figlio), denaro, moralità, politica e storia.

L’11 giugno debutta su Netflix il nuovo lungo (2 ore e mezza) film di Spike Lee che fa “sanguinare” nuovamente, a modo suo, la ferita del Vietnam. Il risultato è tanto bruciante all’inizio quanto incerto nel finale. Disegueale, ma da vedere.

Quattro reduci afroamericani, Paul (Delroy Lindo), Otis (Clarke Peters), Eddie (Norm Lewis) e Melvin (Isiah Whitlock, Jr.), ragazzini negli anni 70 (la guerra durò dal 1955 al 1975), erano stati sradicati dalle loro città di origine negli USA e portati a migliaia di chilometri di distanza per sconfiggere un misterioso nemico nella giungla. Sempre presi di mira dal razzismo, erano stati assegnati ad una squadra dell’esercito e ricevuto un’arma d’assalto. Sotto la guida di Stormin’ Norman (Boseman),​ ​un “fratello” afroamericano che insegna loro come essere contemporaneamente ribelli e patrioti​, questi cinque uomini formano un surrogato di famiglia, i cinque Bloods. (Durante la Guerra del Vietnam il termine Bloods (“fratelli”) cominciò a indicare la fratellanza tra soldati afroamericani, un’espressione informale di cameratismo).


Ora, la loro missione è la ricerca dei resti del loro caposquadra, caduto in guerra, e di un tesoro nascosto (un deposito segreto di lingotti d’oro statunitensi destinato a pagare le truppe del Vietnam del Sud, trovato in un aereo precipitato, nascosto per poi tornare a prenderlo). Accompagnati dal figlio di Paul (Jonathan Majors), si ritrovano a fare i conti con le ferite mai sanate della guerra del Vietnam.

Lee crea sequenze, in flashback, di combattimenti nella giunglaper i 4 uomini (che non vengono digitalmente ringiovaniti, ma messi in scena nel passato come sono nel presente), talvolta inserendo foto d’archivio e clip di cinegiornali, e, con un montaggio riuscito, le interseca alla vita di questi veterani che non hanno mai smesso il braccio di ferro con quell’esperienza traumatica, in conflitto emotivo tra orgoglio e disperazione nei confrondi di una Patria che li ha spediti nel Sud-Est asiatico a difenderla, pur sbeffeggiandoli con espressioni razziste, e non solo, come niger.

Le scene ambientate negli anni della guerra sono in 16mm con schermo in 4:3. Per il presente, ci sono invece scene in widescreen.

Il direttore della fotografia Newton Thomas Siegel fa un uso straordinario e sapiente e granuloso della luce, una linea di demarcazione tra le due epoche.

Spike Lee ha diretto, co-sceneggiato (con Danny Bilson, Paul DeMeo, Kevin Willmott), prodotto (con la sua storica casa di produzione la 40 Acres & A Mule Filmworks) questo turbine, come dicevamo, di generi e idee.

Interessante la prima metà, ha ritmo ed è avvincente. Il suo stile che si contraddistingue nell’essere contraddittorio, qui non è da meno, anzi rimarcato.

La seconda metà si sfilaccia, la narrazione diventa intricata. Entrano in scena stereotipi, congetture iperboliche, elementi troppo pittoreschi (un francese – Jean Reno – senza scrupoli).

Lee cita dichiarazioni, all’inizio, di Muhammad Ali (il suo rifiuto ad andare a combattere in Vietnam), e, sul finale, di Martin Luther King (sul riconoscimento dei diritti civili).

La percezione che arriva a noi è diversa da quella che riceve un pubblico statunitense dove, proprio oggi, sta esplodendo una ribellione contro un razzismo primatista. I plausi rivolti a Lee si riferiscono alla sua tempestività con questo film che alla fine dedica uno spazio al motto #blacklivesmatter.

Nulla da dire a riguardo. Artisticamente parlando, è un esuberante esercizio di stile attraverso il quale Lee disserta sull’America e la sua storia.