“A SNAKE OF JUNE” di Shinya Tsukamoto

Il dramma interiore di una donna che si credeva felice

Rinko è una bella consulente telefonica presso un centro d’igiene mentale, quindi controllata e apparentemente quieta, che ri-dona la volontà di vivere ad un potenziale suicida. Il fotografo Iguchi inizia a spiare la sua dea salvatrice e a fotografarla mentre si masturba stesa nella stessa chaise-longue in cui il marito si assopisce la sera, consunto dal ruolo d’uomo d’affari e dalle maniache faccende domestiche. L’arredamento della casa è sontuoso e minimale, freddo e vacuo. Iguchi la costringerà a girare per la città (che appare nuda), a farsi fotografare e a fotografarsi, a farsi vedere, a vedersi.

Tsukamoto alza il sipario di un palcoscenico che denuncia desiderio e pena erotica, la voglia di urlare di una donna qualsiasi nella metallica Tokio alle porte della stagione delle piogge; un susseguirsi di salvataggi composti di sequenze drammatiche e momentanee sgranature di un di un sogno reale nei toni del blu.

La pulsione erotica voyeuristica che in un primo tempo lo induce a ricattare, diverrà per Iguchi uno stimolo emotivo spasmodico dovuto all’avvilente scoperta che farà sviluppando un fotogramma della soffocata donna, “una macchia” sul seno di Rinko, un cancro. Cancro dal quale pur egli è affetto che per tale motivo desiderava annientarsi, e per lei diverrà il principio di un’accattivante ri-scoperta di sé. Una corsa ansiosa sotto la pioggia che fa da sfondo e sottofondo, attenua ed esalta una scena erotica intensa: meta, un vicolo cieco, dove ad attenderla ci sarà Iguchi seduto in auto e pronto ad immortalare la tormentata masturbazione liberatoria ed il conflitto di dualità.

A snake of june è il capolavoro artistico di un fotografo-regista che è riuscito sapientemente a mescolare il dramma interiore di una donna che si credeva felice. Sì felice di stare accanto ad un uomo il cui unico problema dopo aver saputo che la moglie ha un cancro al seno, è quello di trovarsi alle prese con una bellezza monca, ma anche della bellezza si accorgerà solo dopo essere stato rapito e seviziato da Iguchi per costringerlo a vedere. Immagini cruente e acuite dal gioco di chiaro-scuro, dagli scatti che inquadrano l’oblò della vasca nella quale Shigehiko nuota cercando disperatamente una via d’uscita. Nella filosofia orientale il cerchio ed il colore blu rappresentano l’acqua e pure nel mondo onirico il sé è raffigurato da questo liquido morbido, che scorre cercando di lasciare il suo messaggio, fermo a rappresentare un blocco. Impotenza comunicativa di una coppia borghese in crisi o sublimazione di Shigehiko che non ha nemmeno il coraggio di immaginare una scena amorosa con la moglie-monca? E’ la poesia sottile e spietata di una realtà onirica, oniricità data dalla sgranatura della fotografia volutamente ingrandita; da quel clima seducente e melanconico che la pioggia trae su realtà oggettive.

Il film è tutto girato in bianco-nero bluastro ed è forse il connubio minimalismo – bianco e nero che ha indotto qualcuno, erroneamente a classificarlo decadente, anni ’80. Ma né siamo alle prese con uno Jim Jarmush (che non voglio criticare negativamente, anzi…), né ad un prodotto disordinato e se mi è concesso, come disse Kubrick “fare un film non è fotografare semplicemente la realtà, ma fotografare la fotografia della realtà”…

Sceneggiatura, Fotografia, Scenografia Montaggio: Shinya Tsukamoto
Produzione
Kaijyu Theater Co.
Distribuzione Internazionale
Gold View Co.
Interpreti:
Asuka Kurosawa (Rinko),
Yuji Koutari (Shigehiko),
Shinya Tsukamoto (Iguchi),
Tomoro Taguchi (redattore).