Nella la più viva speranza che il sipario calato sullo Studio Ghibli sia destinato ad alzarsi in tempi ragionevoli, il recente abbandono di Hiromasa Yonebayashi e le altalenanti dichiarazioni di Goro Miyazaki in merito al suo futuro lasciano invece supporre che si tratterà di un fermo definitivo, come purtroppo comprovato dal licenziamento in blocco del reparto animazione.
Nonostante Miyazaki e Yonebayashi avessero ambedue manifestato una a tratti allarmante propensione a distinguersi, mutuando non sempre felicemente alcune peculiarità dei loro predecessori, era legittimo sperare che sarebbero stati in grado di riportare lo Studio agli antichi fasti, operando l’auspicato cambio generazionale: un’ipotesi che, a oggi, risulta quanto mai improbabile.
A prescindere dal fatto che la storia di questa istituzione continui o meno, nell’esigua produzione degli ultimi anni si possono intravedere alcune fondamentali innovazioni, a partire da quelle introdotte dall’animatore di lungo corso Hiromasa Yonebayashi: non è però questo il caso del suo esordio alla regia Arrietty – Il mondo segreto sotto il pavimento, che ha goduto di una risonanza immeritatamente vasta. Nonostante l’apprezzamento unanime, si tratta di una malriuscita combinazione di elementi autoctoni e Occidentali fine a se stessa e priva di qualsivoglia autorialità, ben lontana dalla definizione di favola ambientalista che le è stata data. Se infatti in un primo momento il film pare incentrato sul corretto modo di approcciarsi al diverso e sul conflitto tra il gentile Sho e la vecchia governante sospettosa, la trama finisce per esaurirsi nel mellifluo rapporto tra i protagonisti, la cui personalità è pressoché inesistente. Unico elemento lodevole è forse la particolareggiata rappresentazione degli ambienti dal punto di vista dei minuti prendimprestito, apprezzabile soprattutto nei momenti d’azione, relativamente rari dato il ritmo a dir poco soporifero della narrazione.
Il secondo lungometraggio Quando c’era Marnie rappresenta al contrario un inedito gioco di specchi, in cui il piano della realtà viene continuamente a sovrapporsi alle proiezioni di Anna, una bambina asociale e inespressiva a causa della prolungata solitudine, assumendo in certi frangenti le sfumature di un vero e proprio thriller psicologico. Il tema dell’abbandono viene qui analizzato in chiave più moderna e cinica rispetto al passato, privilegiando l’introspezione dell’atipica protagonista, la quale riuscirà infine a ricomporre il quadro degli eventi grazie alla catena di agnizioni innescata dall’anziana pittrice: quest’ultimo personaggio consiste fra l’altro in una diretta citazione a Nahoko de Si Alza il Vento, sia per l’abbigliamento e l’hobby che per le inquadrature che la introducono. Soffermandosi ulteriormente su Anna, costei non si dimostra particolarmente femminile né nei modi né negli interessi, delineandosi piuttosto come un “maschiaccio”, il che la rende l’esatto opposto di Marnie, abituata sin da piccola a stare in società e pertanto dotata dei tipici vezzi muliebri. Per quanto la seguente congettura possa sulle prime risultare forzata, non è da escludere un’attrazione omoerotica tra le due: di fatto, nella loro ingenuità e innocenza, vi sono svariate scene di tensione sessuale, le quali, pur risolvendosi semplicemente in un abbraccio o in una dichiarazione di affetto, per frequenza ed entità paiono andare oltre la semplice amicizia, tenendo anche conto della situazione emotiva e familiare in cui entrambe le fanciulle versano.
Di incerta collocazione anche Goro Miyazaki, il quale non ha mai dimostrato un genuino interesse nel seguire le orme paterne: inizialmente solo sceneggiatore de I Racconti di Terramare, fu il produttore Toshio Suzuki a notare la qualità dei suoi storyboard e a caldeggiare il passaggio alla regia, una proposta a buon diritto ritenuta prematura da Hayao Miyazaki. Col senno di poi, si trattò di un errore di valutazione commesso in buona fede: probabilmente Suzuki, seppur conscio dei limiti e della riluttanza di Miyazaki figlio, volle consacrarlo al mondo dell’animazione nell’intento di formare un adeguato erede al trono, con una certa esperienza alle spalle e già noto al pubblico per quando fosse giunto il momento del ritiro del grande maestro.
L’immaturità artistica di questo autore traspare in primo luogo dal suddetto I Racconti di Terramare, presentato come un’opera prima dall’intreccio Ariostesco sapientemente attinta dalla Saga di Terramare di Ursula K. Le Guin. Al di là della soltanto apparente attinenza col soggetto e della quasi assente caratterizzazione, si tratta di una pellicola tanto semplicistica dal punto di vista tecnico quanto dozzinale per le riflessioni contenute, che spaziano dalla necessità della Morte, intesa come preziosa controparte della Vita, alla concezione manicheistica dell’equilibrio tra Luce e Tenebra, da preservare a livello individuale come a livello cosmico. Arren è comunque un eroe piacevolmente insolito per un film Ghibli, trattandosi di un principe paranoico e attanagliato dai sensi di colpa il cui percorso di crescita passa attraverso il rifiuto della propria identità.
Decisamente più pregevole grazie alla sceneggiatura approntata dal padre è La Collina dei Papaveri, un dettagliato spaccato della società giapponese del Secondo Dopoguerra. Il giovane Miyazaki non abbandona il gusto barocco dimostrato nella pellicola precedente, adattandolo tuttavia in maniera più pertinente al contesto storico: esempio più lampante ne è la rappresentazione del Quartier Latin, la club house rimessa a nuovo dagli studenti dell’Istituto Isogo. I protagonisti Umi e Shun, entrambi orfani di guerra, incarnano gli ideali della nuova gioventù giapponese, impegnata in uno sforzo collettivo per ricostruire il Paese conciliando progresso e tradizione: un’esaltazione della forza del gruppo anziché del singolo che si pone in netta antitesi rispetto al solipsismo eroico imperante in gran parte della produzione Miyazakiana.
Altro ambito precedentemente inesplorato è quello dell’incesto, quantunque solamente paventato: infatti, fino alla rivelazione finale che consentirà il coronamento del loro amore, sia Umi che Shun reprimono con abnegazione i propri sentimenti nonostante l’attrazione reciproca.
A conti fatti, il contributo di queste giovani menti non regge tuttavia al confronto con la vecchia guardia, essenzialmente perché la necessità di distaccarsene è stata dettata da esigenze di natura prettamente economica anziché artistica: era perciò inevitabile che la crescita a marce forzate cui Miyazaki e Yonebayashi erano stati sottoposti nel nome del benessere dello studio si traducesse in lavori ricchi di spunti innovativi ma perlopiù ancora acerbi. In un’altra ottica, la chiusura dello Studio Ghibli non solo condannerebbe all’oblio l’avviato processo di rinnovamento, ma comporterebbe per giunta la fine di un sogno durato trent’anni, che si sperava avrebbe continuato ad affascinare attivamente anche le generazioni a venire.