Dopo il successo di “Mato de guera”, quasi 300 repliche e 12 premi nazionali vinti, Luigi Mardegan, attore e regista trevigiano con decenni di attività alle spalle, torna sul palcoscenico per celebrare la Grande Guerra.
Al Teatro Comunale Mario Del Monaco di Treviso ha debuttato “La locomotiva”, sceneggiatura e regia di Roberto Cuppone. Un solo attore e cinque personaggi che alternano dolorosi ricordi, prese di coscienza e volontà di ripartire. Scenografia scarna, essenziale, efficace. Una caldaia e due ruote per immaginare la locomotiva, la macchina, il progresso che forse serve all’uomo, forse lo rende schiavo in maniera diversa.
Non una lingua ma un idioma, il dialetto del suo Veneto, caldo, viscerale, così vicino alle radici del suo pubblico che sorride ai motteggi e si commuove di fronte ai racconti del Gigi macchinista, madre, anarchico, prete e cieco. Individui simbolo di quella folla prostrata al passaggio della locomotiva, che poderosa deve condurre il milite ignoto da Aquileia a Roma, al Vittoriale, alla tomba del re. In quel tratto di campagna veneta, dove la potente macchina si è fermata, ciascuno si prende il giusto tempo per raccontare la propria guerra, tra un’aria lirica e l’altra, tutte scelte con cura per chiudere il tema del personaggio che la precede e funzionale al rapido cambio d’abito, e di pelle, di Mardegan.
Prendono forma i ricordi, si palesano i ruoli che la guerra ha assegnato e l’alienazione data da quei ruoli stessi, fluisce il dolore ed emerge vivo e razionale il coraggio di scegliere una nuova strada. E in scena si accumulano come tributi i simboli di questa rinascita, lasciati alla locomotiva affinché li conduca a Roma, affinché li porti a sepoltura con quell’eroe di guerra. Un burattino nudo, non solo il giocattolo d’un figlio che una madre non ha visto crescere ma la marionetta che la donna non sarà mai più; una tunica, non un semplice abito ma la divisa sotto cui per troppo tempo si sono celate in nome di Dio azioni contrarie alla pietà umana.Proprio la figura del prete, su tutte, coinvolge e scuote il pubblico, in fila al termine dello spettacolo per raccontare a Mardegan la propria commozione, il trasporto emotivo che con la sua intima interpretazione è riuscito a creare.È un parroco di campagna che ha vissuto il fronte, in abito talare,con il suo altare da campo. Lì per curare le anime, preservarle dai peccati e assolverle dai delitti commessi. Lì per dare conforto, per accompagnare alla morte soldati, amici, nemici,traditori. Francesco Rocco fanteria calabrese. È sulla sua storia che Mardegan indugia e cattura. Disertore coni disegni dei figli nelle tasche, reo di aver desiderato tornare al suo futuro, alla sua casa,abbandonando per un caldo abbraccio l’ideologia della patria.
Destinato a morire per mano di un plotone di suoi commilitoni che eseguono la condanna a morte , è al fante disertore Francesco Rocco che il nostro prete chiede perdono, chiede assoluzione. C’è l’uomo, non c’è quel Dio ultraterreno che da tutto questo è stato tradito e ucciso al nuovo grido di “andate e sterminatevi”,quel dio che, comeMardegan ha fatto poco prima dire al suo anarchico, “è il vero milite ignoto”.Si scatenano, come prevedibile, gli applausi e fa il suo ingresso chiassoso ed euforico l’ultimo personaggio, il cieco di guerra, che chiude la parabola urlando il desiderio di voltare pagina nel momento stesso in cui la locomotiva riparte, “c’è solo quello che si vede” egli dice “vardeve vanti no indrio che de orbi basto mì!”. E così, si riparte.
Ma prima di lasciare spazio ai lunghi e meritati applausi, Mardegan veste i panni di se stesso e si fa voce di un evento recente, che troppo ricorda il passato appena narrato; non commenta, non declama. Legge le parole di Marina Corradi dell’Avvenire e lascia che sia il suo pubblico a interrogarsi sulla nuova guerra, sui nuovi militi ignoti, su tutti quei migranti “ombra di cui non sapremo mai il nome […] caduti sul fronte di una guerra mai dichiarataeppure aspramente, silenziosamente combattuta.”