Laboratorio Internazionale del Teatro de La Biennale: Claudio Tolcachir

Affermatosi in Europa al Festival d’Automne nel 2010 con la pièce La omisiòn de la familia Choleman, primo quadro di una trilogia sulle relazioni familiari (composta dalle altre parti Tarcer cuerpo ed El viento en un violin) ospitata a giugno al Napoli Teatro Festival, Claudio Tolcachir è un attore, drammaturgo e regista esponente di punta del teatro indipendente argentino. Protagonista di un incontro curato dal critico Andrea Porcheddu e di un workshop rivolto a giovani attori nell’ambito del Laboratorio Internazionale del Teatro de La Biennale di Venezia, il maestro è stato paragonato a Raffaele Viviani per la sua familiarità con la drammaturgia popolare e di ricerca.

Nel 2001, periodo della crisi economica argentina, Tolcachir fonda il Teatro Escuela Timbre 4, compreso all’interno di uno stabile nel quartiere operaio di Buenos Aires, testimonianza di un sistema culturale che si dipana in teatri inventati in appartamenti, retro-bottega, officine, in cui lo spazio è motore generatore del dramma. Il processo di scrittura a cui partecipa il regista avviene dopo una fase di improvvisazione sulle azioni fisiche e la costruzione di più ruoli, funzioni che “occupano” gli attori, consentendo all’autore di non rendersi prigioniero di uno stile. Sono i limiti e le situazioni di crisi all’interno del corpo, ciò che lui definisce il patetico, ad attirarlo a lavorare sulla realtà, allenandosi su personaggi di emarginati, ignavi, violenti, egoisti. La sperimentazione “stanislavskijana” sulla costruzione del soggetto e di un “subtesto” ha caratterizzato il percorso del laboratorio Personajes emergentes: construcción en movimento, presentato al pubblico presso la Fondazione G. Cini. Lo spazio della sala degli Arazzi è stato frammentato in una scena multipla simultanea, individuata come nel teatro medioevale in cinque mansions disposte in punti diversi. Sul diario posto sopra una scrivania di legno in un angolo, gli attori a turno si alzano per scrivere, allusione all’immagine di una camera ardente priva della presenza materiale della bara, un riferimento diretto, un cliché, che a parere di Tolcachir avrebbe impedito all’attore di esplorare le sue risorse, l’indagine sull’esercizio dello sguardo e del gesto. Il senso della performance doveva essere quello di creare delle relazioni tra i personaggi, e soltanto il vuoto poteva favorire l’azione, simulando la vita con persone sconosciute, come quelle sedute accanto su una trave di legno che evocava l’interno di una barca, dove a dialogare erano gli sguardi malinconici dei personaggi, nel silenzio interrotto dal mugolio di una donna con la valigia. Un terzo quadro era incorniciato all’interno di un antro posto ad un’estremità, trasformato nella sala d’aspetto di un ospedale, vivente di una donna incinta, della passeggiata ansiosa di un uomo con il cappello, del rumore di un teppista che masticava il chewing-gum, negli intervalli di una voce che imprecava in lingua spagnola. Non molto lontano, il blocco monolitico di un appendiabiti, ai cui ganci erano appesi vestiti e appoggiati prostitute, drogati nell’atto di chiacchierare e ridere, ricreava la parte anteriore di un ponte. La medesima architettura di un attaccapanni richiamava lo scompartimento di un treno, la scena di un tableau vivant, una galleria di tipi che si scrutavano tra un saluto e uno spuntino. Gli attori hanno studiato con complicità la relazione con lo spazio, la rappresentazione estetica e interiore del personaggio in ogni dettaglio, entrando in simbiosi sulla base di uno schema scheletrico della comunicazione giocato sull’immaginazione, un lavoro su microdrammaturgie guidato da un pedagogo che valorizza la collegialità dell’esperienza dei giovani, formando l’ attenzione del loro pensiero visibile, che con coscienza appare educato ad ogni accadimento sociale.

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