Concorso
Una settimana in compagnia di Z, poliziotto in bicicletta di origini africane diviso tra le ipotesi ossessive del tradimento della sua ragazza e la routine giornaliera delle chiamate al 911. Un viaggio nei pensieri più profondi di una persona come tante alle prese con i comuni dilemmi della vita, mentre sullo sfondo si consumano le tragedie quotidiane di una società in crisi.
Quante volte, mentre lavoriamo, la nostra mente si dirige verso tutt’altre divagazioni? Non c’è niente di strano, siamo fatti così; non riusciamo ad accantonare a tempo indeterminato questioni che per noi sono importanti, probabilmente più importanti del lavoro stesso che stiamo svolgendo. Tuttavia proviamo, la maggior parte delle volte, a farci largo tra pensieri assillanti per svolgere più professionalmente possibile il mestiere che facciamo per campare, spesso scansando e relegando nel subconscio le emozioni più disparate.
Robinson Devor porta alle estreme conseguenze l’intreccio tra vita privata e svolgimento del proprio lavoro, fondendo le riflessioni di un diario intimo con un lucido spaccato di una società americana violenta ed impaurita. Le angosce di Z, espresse attraverso una voce fuori campo, in senegalese, introducono lo spettatore in un torbido viaggio all’interno delle sensazioni più profonde del protagonista, ordinariamente diviso tra le gioie e i dolori dell’amore verso la sua ragazza.
Gli interventi, le chiamate, la redazione dei verbali, diventano per Z un monotono rituale, un grigio dovere contrapposto alle sensazioni umane e primitive suscitate dai suoi sentimenti. Il lavoro diventa impersonale e cinica occupazione, un ripetersi affannoso di vuote formalità imposto da una cultura in disfacimento che non ha il tempo di cercare le cause di un disagio diffuso, ma solamente il desiderio di occultare i sintomi della crisi mantenendo una normalità apparente.
Devor in un sol colpo abbatte la chimera del sogno americano (un giovane emigrato africano che si rende conto della precarietà dei valori imposti dalla società in cui vive), smaschera l’ipocrisia di una periferia borghese gravemente malata (si vive con la paura che il nostro vicino di casa possa farci del male) e indaga sulle necessità primarie della vita di tutti i giorni (bisogna ascoltare il proprio cuore o chiudersi in se stessi?). Partendo da fatti di cronaca realmente accaduti nei pressi di Seattle, il regista coniuga realismo e poesia, crudezza ed emotività, distacco ed empatia in un film originale e sincero a cui è difficile restare indifferenti.
Girato in alta definizione (HD), “Police Beat” ha però il difetto di raggiungere il culmine della forza emotiva ed espressiva nel nucleo centrale del film, quando le ansie e i turbamenti del protagonista sintetizzano un raro equilibrio delle diverse componenti della storia, mentre proseguendo corrono il rischio di reiterare situazioni già esemplarmente affrontate in precedenza.
POLICE BEAT
USA, 2004, HD, 80′, col.
regia/director
Robinson Devor
sceneggiatura/screenplay
Robinson Devor, Charles Mudede
fotografia/director of photography
Sean Kirby
scenografia/set design
Etta Lilienthal, Katy Davis
costumi/costume design
Doris Black
montaggio/film editor
Mark Winitsky, Joe Shapiro
suono/sound
Joe Shapiro
interpreti e personaggi/cast and characters
Pape Sidy Niang (Z), Anna Oxygen (Rachel), Eric Breedlove (Swan), Sarah Harlett (Mary), Elijah Geiger (Jeff), Scott Meola (Hedge Trimmer), Jake Hart (capo della polizia/Police Chief), Tricia Rodley (vittima dell’uomo con il macete/Machete Man Victim), David Milner (l’uomo con il machete/Machete Man)
produttore/producer
Jeffrey M. Brown, Alexis Ferris ù
produzione/production
Modern Digital, Police Beat LLC