“Pudor” è il concorrente spagnolo al quarantaduesimo concorso di Karlovy Vary. Ed è un concorrente con i fiocchi, nonostante lo firmino due esordienti nel lungometraggio. Ma ormai non ci stupiamo più se il debutto di autori quasi sconosciuti colpisce per maturità e densità emotiva, tanto più se, come in questo caso i due fratelli (David e Tristan Ulloa) hanno già più di trent’anni e non sono in fondo degli inesperti ragazzini di primo pelo: entrambi han messo mano ad un serial molto popolare in Spagna, “El comisario”, e il maggiore è da anni attore di una certa esperienza (lo si è visto in “Lucia e il sexo”).
Tutto ciò premesso, vedersi davanti una sorta di American Beauty più compatto e molto meno succube delle semplificazioni psicologiche americane fa piacere. La carne messa a cuocere nella vicenda da Tristan, il fratello che è anche sceneggiatore, è tanta: le difficoltà adolescenziali di una ragazzina incerta sulla propria identità sessuale, il padre di famiglia che scopre di essere destinato a una rapida morte per tumore, la moglie che si sente trascurata e inizia a flirtare con l’idea del tradimento dopo la morte della madre, sono temi che sembrerebbero ormai fiacchi e privi di novità, o peggio destinati al trattamento stereotipato di un moderno e asfittico cinema dell’“incomunicabilità”; ma la profondità dello sguardo e delle dinamiche conoscitive messe qui in azione tengono incollati a una storia che non diventa mai melodramma, ma vibra di intensità non comune e spinge ad interrogarsi sulla logica (se ce n’è una) della vita familiare.
I fratelli spagnoli traggono la storia da un romanzo ambientato in Perù, ma la riadattano ad una opaca Gijon (nelle Asturie) dal cielo basso e dalla luce oppressiva. Poi la fanno avanzare per via di sottili smottamenti emotivi che si potrebbero anche paragonare a leggeri terremoti (familiari, affettivi, adolescenziali) che richiedono poi varie scosse di assestamento per trovare un qualche equilibrio stabile, per quanto poi le faglie e le cicatrici rimarranno sempre dolorose: i piccoli traumi familiari possono distruggere per intero una vita, e Pudor riesce a trasmettere quell’atmosfera spessa e irrespirabile che si addensa su un tavolo imbandito quando il dramma è presente, ma rimane inespresso, quando tutti i membri della famiglia hanno un peso sulla coscienza, ma non ci sono linee di comunicazione per discuterne apertamente.
Di atmosfera irrespirabile parliamo anche per il richiamo linguistico che gli autori rilevano intenzionalmente, fra il “pudor” spagnolo (la vergogna, il timore, la modestia) e il “putor” latino (la puzza di marcio, l’aria fetida), e per il ripetuto riferimento a non meglio individuabili cattivi odori che aleggiano nella casa. Si sente il bisogno di “cambiare aria”, di spalancare le finestre, o meglio, metaforicamente, di dar sfogo e agio a ciò che opprime l’animo, di farlo respirare, per via di un confronto, doloroso ma catartico.
È un film di atmosfere e di non detti, che ha anzi la sua forza proprio nelle ellissi informative e nel coinvolgimento mentale che provoca il tentativo di comprenderne le dinamiche nascoste, che attraverso le figure dei bambini richiama anche a paure universali, non necessariamente infantili: nell’aria ci sono infatti anche i “fantasmi”, e non solo quelli inseguiti e sognati dal piccolo Sergio, ma soprattutto le paure materializzate di un’intera famiglia. La paura della morte, la paura di restare soli e di essere respinti. La paura di fare qualcosa per cui si debba poi avere vergogna.
Colore, 35 mm
Spagna, 2007, 113 min
Sezione: Concorso
regia: Tristán Ulloa, David Ulloa
sceneggiatura: Tristán Ulloa
direttore delal fotografia: David Omedes
musica: David Crespo
Produzione: José Antonio Félez