Concorso
Il film francese in concorso a Karlovy Vary non si nasconde e si propone subito come uno dei preferiti del pubblico, manifestando senza timori e con delicato orgoglio appunto la sua “francesità”.
Dialogue avec mon jardinier è una garbata commedia come sanno fare i cugini d’Oltralpe, impostata sull’urbano scambio dialogico e il piacere della parola amicale. Il regista non è tra i più prolifici per la sua età: Jean Becker iniziò nei Sessanta con qualche film di genere di una certa fama, in cui utilizzò il buon Belmondo, per poi tacersi a lungo e ritornare con un certa continuità solo nei Novanta (nel 2000 in Italia circolò il suo Omicidio in Paradiso). Fra l’altro è figlio del più famoso Jacques (due titoli su tutti: Casco d’oro e Grisbi).
I due dialoganti di questo suo ultimo lavoro sono un affermato pittore di città (un Daniel Auteuil a buoni livelli) e un più modesto e terreno giardiniere, suo ex-compagno di scuola (Jean-Pierre Darroussin, attore amato dal marsigliese Guédiguian, che qui spesso ruba la scena al più famoso collega). La figura del giardiniere si presta ad interpretazioni che facilmente trascendono l’“umiltà” del suo lavoro, e l’arte mondiale ne ha già fatto tesoro (anche quella cinematografica, se ricordiamo Being There – Oltre il giardino di Hal Ashby).
E visto che il tenero e umanissimo Conversazione con il mio giardiniere è stato presentato proprio in Repubblica Ceca, non possiamo che rammentare anche l’inventore letterario dei robot, lo scrittore e giornalista Karel Čapek, che dedicò a sua volta all’arte del giardinaggio una raccolta di riflessioni (dal titolo L’anno del giardiniere) in cui per mezzo del suo amore per le piante e la natura riuscì ad esprimere anche delle considerazioni non banali sul carattere del suo popolo e dell’essere umano in genere. Il giardino del resto è metafora terrestre del paradiso, e la ricchezza dei suoi colori o delle varietà che si coltivano, insieme all’ordine che vi regna, rappresentano naturalmente un rifugio pacificato e organizzato rispetto al caos diabolico della vita.
Su queste orme si muove anche Becker che, adattando un romanzo di Henri Cueco, pittore e romanziere francese, tesse e fa indossare alla perfezione sui due attori ben assortiti i panni della classica coppia dialogante complementare: il pittore un po’ svampito e donnaiolo, uomo di città e di atelier incapace di annaffiare uno zucchino, il giardiniere invece pragmatico e provinciale in senso buono, depositario di un gusto artistico molto più popolare, saggio campagnolo che non farebbe male a una mosca, ma non ha mai improvvisato o impazzato in una vita che non gli ha offerto troppe occasioni. L’origine borghese del primo e proletaria dell’altro si confrontano per caso, prima brevemente sui banchi di scuola, poi nella maturità, quasi per finire di esprimere tutto il non detto, e per vedere dove due linee esistenziali divergenti hanno portato due tipi umani opposti. Lo scambio umano è reciproco, la vicinanza alla natura (uno la dipinge, l’altro la cura) lega a sua volta due destini alternativi e li completa a vicenda. Ché il giardiniere è tutt’altro che uno scontroso ignorante di paese, il suo apporto esperienziale, il suo approccio morale è anzi un equilibratore, forse un toccasana per la nonchalance parigina dell’artista un po’ in crisi da “anta” e seduttore a tempo perso di giovani modelle.
Fra le righe di dialoghi fra il maieutico e il terapeutico fanno capolino anche i temi sociali di una Francia che ha anch’essa i suoi problemi di precarietà lavorativa e assistenziale: il giardiniere rappresenta anche un tipo di saggezza “obbligatoria” se vogliamo, quella cioè che non potendo permettersi cliniche e specialisti si accontenta della visita annuale passata dal sindacato ferrovieri, ma ha bisogno del ricco pittore per poter finalmente accedere alle meritate cure del suo stomaco malato. D’altro canto è sempre il benestante di successo interpretato da Auteuil a risolvere con una semplice telefonata un caso di disoccupazione quasi disperata: ancora una volta, sembra una critica allo stato assente, per colpa del quale bisogna sperare di avere agganci altolocati per poter vedere rispettati i propri diritti basilari.
Non sarebbe un film francese se non si parlasse (a Becker è riuscito quasi il miracolo di appropinquarsi, pur senza raggiungerli, ai territori di monsieur Rohmer); non sarebbe un film francese se non ci fossero donne e tradimenti: le signore e signorine baluginano qua e là nei pochi spazi che i due parlatori lasciano loro, trasmettendo quasi una strana impressione di superfluità, come se quello che davvero serve ai due ritrovati compagni sia il conforto dell’ascoltarsi con un bicchiere in mano piuttosto che la presenza femminile.
C’è poi un altro parallelo fondamentale nell’economia di questo Dialogue: per via di queste “sedute conoscitive”, attraverso un processo di compenetrazione osmotica, l’uomo di città e quello di campagna si “seminano” ed arricchiscono a vicenda, mentre fuori un giardino di sterpi manzoniano riprende forza e colore, viene restituito all’armonia e alla vita. Quella vita che il giardiniere malato grave ha come “trapassato” ai suoi amati frutti e ortaggi.
Nel complesso uno di quei film che “fanno bene al cuore”, non però grazie a facili concessioni al sentimentalismo, bensì perché dialogico, aperto, interrogativo. Nessuno dei due personaggi è autosufficiente, nessuno depositario di una visione superiore. Come ebbe a dire un importante regista slovacco, Juraj Jakubisko, con metafora da giardiniere-apicoltore: “La verità sta nel mezzo, come il pungiglione di un’ape”.
Colore, 35 mm
Francia, 2007, 109 min
Sezione: Concorso
Regia: Jean Becker
Sceneggiatura: Jean Cosmos, Jacques Monnet, Jean Becker dal romanzo di Henri CuecoMusica: Ahmet Gulbay