Tre film slavi in concorso a Karlovy Vary

Come fatto per quelli nordici in concorso, anche qui raggruppiamo per comodità tre film provenienti da paesi slavi, anche se (o forse proprio perché) i rispettivi stili sono alquanto differenti e testimoniano in parte di un certo approccio “nazionale”, differente e peculiare per i tre paesi in questione. Paesi che sono poi la Repubblica Ceca ospitante, la Russia che foss’anche per le sue grandezze numeriche negli ultimi tempi sforna diversi prodotti di qualità che forse testimoniano di un periodo di ripresa del sistema cinema russo, e la Polonia che sembra (si vedano anche le ultime uscite politiche dei suoi governanti) il paese più controverso di quelli da poco entrati nella UE.

Il ceco Jan Sverak è un rappresentante di tutto rispetto, una sorta di asso (almeno per il suo richiamo di pubblico) calato dai responsabili del programma, grazie al quale il paese ospite può contare su un premio Oscar (per Kolja, 1996) e un attore di “quotidiana genialità”, il padre del regista, nonché autore della sceneggiatura, Zdenek Sverak. È lo stesso buon Sverak padre a prendersi il peso del ruolo principale, quello di un maestro di scuola che, disgustato dalle nuove generazioni studentesche, preferisce la pensione e si cerca un lavoretto che gli permetta di continuare a stare in mezzo alla gente. Diventa così l’addetto al recupero dei “vuoti a rendere” (così si potrebbe intendere anche il titolo Vratne lahve, letteralmente “bottiglie vuote”). Senza cadere nello stereotipo del vecchietto arzillo che spara le sue ultime cartucce, il maestro in pensione Tkaloun rappresenta un tipo umano pieno di energie che cerca di mantenersi attivo e combatte contro la modernità incombente: non capisce più i giovani, tanto meno i computer, e sarà rimesso a riposo un’altra volta da una diabolica macchinetta per la raccolta automatica delle bottiglie. Gli Sverak purtroppo non puntano minimamente a messaggi sociali o a qualsivoglia analisi sulla condizione dell’uomo; vogliono solo divertire un pubblico affezionatissimo (che nelle sale patrie li ha già ripagati copiosamente) con gag slapstick (meno riuscite, ma briose), e con un tipo di umorismo verbale urbano e a tratti paradossale (opera della penna sempre ispirata di Sverak padre). È in questo umorismo perbene e umanistico che risiede il maggior merito di questa pellicola, che per il resto si adagia in un finale fintamente avventuroso che glorifica lo status quo familiare e i buoni sentimenti. Molto gustose le visioni oniriche erotiche del vecchio maestro, che passa in rassegna ogni notte freudianamente le donne che ha incontrato, rielaborandone le grazie femminine in una sorta di giocoso delirio di onnipotenza.

Il russo Alexej Popogrebskij riesce con il suo Prostyje vesci (Cose semplici) a coniugare la tradizione culturale cechoviana fatta di dottori di provincia e vecchi attori brontoloni (i due protagonisti ricadono in queste categorie) con un cinema metropolitano e moderno che rispecchia senza esagerazioni o semplificazioni la nuova Russia in evoluzione. L’anestesista Sergej vive senza eccessivi scossoni e con filosofia la sua età di quarantenne con la sua varia gamma di problemi: la Russia in cui si trova a vivere, lui tecnico di provincia senza grossi numeri, è quella che lo costringe ad un appartamentino in coabitazione e con telefono in comune in cui non entrerebbe mai un altro figlio (in arrivo), una paga insufficiente in un ospedale senza infamia e senza lode, e un rapporto in odore di crisi con la moglie, anche a causa delle sue scappatelle con le infermiere del reparto e di una figlia ribelle fuggita di casa. A questo punto entra in scena il dilemma morale che dà una dimensione più profonda alla vicenda, materializzandosi nella figura di un vecchio attore depresso che Sergej curerà a domicilio per arrotondare. La proposta che il vecchio gli fa è un terremoto psichico: procurargli la “dolce morte” in cambio di un quadro che sistemerebbe tutti i problemi economici del quasi dottore di provincia. Il regista Popogrebskij, al debutto, riesce a dipingere senza sbavature patetiche o stereotipi due psicologie contrastanti, quella dell’anziano a cui il mondo ha già offerto tutto, e quella di un buon diavolo che senza elucubrazioni morali, bensì per puro istinto non riuscirebbe mai a far del male al prossimo. Come da titolo, le cose analizzate sono semplici, quotidiane, eppure condotte al loro punto critico di ebollizione da una regia che si ferma senza voyeurismo sull’intimità dei personaggi.

Nella tradizione del cinema problematico e morale di Zanussi e Kieslowski si inserisce invece l’ultimo film di Krzysztof Krause, polacco che ha già vinto due anni fa qui nel festival della cittadina termale boema e che ha alle spalle una discreta produzione di qualità (si dovrebbe recuperare almeno il suo Il debito, del 1999). È la prima volta fra l’altro che firma un’opera a quattro mani con la moglie Joanna, ma ciò è tanto più comprensibile se pensiamo al tema del film: le tristi e quasi neorealiste vicissitudini di una famiglia media della Varsavia di oggi (il titolo, Piazza del Salvatore, è un luogo della capitale). Ingannati da un imprenditore e rimasti senza casa, Bartek e Beata devono industriarsi in un paese che non li aiuta molto: trovano un asilo pieno di tensioni e scomodità a casa della madre di lui, ma la piazza del titolo, più che luogo di salvezza diventa un piccolo inferno domestico. Gli autori si rifanno ad alcune vicende personali di un momento burrascoso del passato, e se da un lato distribuiscono le colpe fra i vari personaggi in questione, non nascondono una simpatia per la vittima più debole ed incolpevole del lotto, la povera moglie che è prigioniera di un sistema patriarcale di violenza psichica e immeritate umiliazioni. A tratti sembra che i due registi calchino troppo la mano con le sventure e il clima di oppressione, ma di certo in case reali succede anche di peggio e c’è da dire che i dialoghi sono particolarmente vivi e verosimili (i Krause dichiarano di avere girato 50 ore di dialoghi tra cui scegliere i più efficaci, mentre gli attori si sono immedesimati negli ambienti dei propri personaggi con metodi da Actor’s Studio). Ne risulta un film che è un pugno nello stomaco e non si presta certo a catartiche visioni familiari da sabato sera, ma che ha il coraggio di non cercare scorciatoie e di non abbellire il triste inferno quotidiano in cui si può trasformare una vita familiare senza certezze materiali.

In conclusione: la classica buona, media commedia ceca dunque (neanche ai suoi vertici più brillanti in fondo); un film russo fondato su personaggi densi e vari richiami culturali “interni” (i vari rimandi alla pittura, alla letteratura e al cinema russi) che testimoniano un sano attaccamento alla tradizione unito a una forma filmica densa e matura; un film polacco che rinnova con una particolare cattiveria (mai compiaciuta o fine a se stessa però) la linea sociale e etica dei grandi registi del paese, ma che forse appesantisce gli spettatori di una cappa di tristezza esagerata, senza dar loro molte vie di fuga catartiche. Sono tre atteggiamenti che rispecchiano a nostro avviso perfettamente le differenze storiche e le aspettative “popolari” legate al pubblico dei tre paesi. Nessuna sorpresa sul piano culturologico, ma tre prodotti di buon livello che confermano un concorso vario e interessante.