Kyoko si risveglia nella sua surreale abitazione e inizia la sua routine quotidiana, che in larga parte consiste nell’umiliazione delle modelle e delle assistenti che contribuiscono al suo processo artistico, ma è solo una recita: ella è nulla più che un’attrice di pinku-eiga che interpreta senza troppo successo al protagonista della pellicola e che patisce sulla propria pelle il ribaltamento della situazione inscenata, violentata psicologicamente dall’intera troupe. Ma questi sono solo i primi due livelli del gioco.
Presentato a Torino 34, festival da sempre caro a Sion Sono, Anchiporuno prosegue la stagione post-Tokyo Tribe inaugurata quattro anni fa dal regista nipponico, pur tuttavia potendo vantare un qualcosa in più. Questo quid è rappresentato dalla stratificata e didascalica complessità di significanti che costituiscono l’essenza del film, ma se considerarlo in virtù di ciò una delle opere-cardine all’interno del percorso autoriale del regista può essere una suggestione non indifferente, nondimeno si tratterebbe di un errore grossolano. Addentrandoci in quello che è il sistema di relazioni tra i film di Sono non è difficile comprendere che Anchiporuno rappresenta una declinazione particolare dell’exemplum del film minore tipo per questi; nella fattispecie conferma la tendenza strutturale dei vari Tag, Be sure to share, Into a dream, Whispering star etc, ribaltandone i poli, e mettendo dunque in scena una sorta di sincrasi delle tematiche della filmografia dell’autore, tralasciando la solita astrazione.
Si ritorna dunque all’originario di Sion Sono: il conflitto individuo/società, esplorato attraverso una matrioska di livelli di realtà che lungi dal costituire mera rappresentazione ricalcano invece i livelli di realtà del cinema di Sono medesimo, in un “coacervo riassuntivo” che smonta il modo di fare cinema del suo autore proponendo una decostruzione profondamente auto-ironica ma pure disincantata – ovviamente – del tema della libertà. Se poi da un lato è opportuno evitare una semplicistica ricostruzione nell’analisi – sarebbe pedissequo per chiunque conosca anche poco il nipponico una pur ben orientata catena causal-referenziale di disamina allegorica – dall’altro non si può non porre come perno della visione critica del film la sua apertura. Lo specchio rotto ci restituisce la prima immagine della protagonista: il frammento è idea della struttura filmica e contemporaneamente simboleggia l’identità sradicata, cioè nel pieno dell’estraniazione causata dall’incapacità di trovarla, questa identità. Non a caso la prima maschera dello stesso personaggio (la controversa ed estrosa artista dominante) è indossata dinanzi a un altro specchio, rigorosamente intero.
Come quindi per i corrispettivi analoghi, l’ossatura è a forma di fisarmonica ma contiene già al suo principio la chiave di lettura. Lettura di almeno quattro diversi spazi interpretativi. Dall’omaggio al pinku-eiga – il soft-porno giapponese, cioè il primo livello – con cui Sono di fatto riassume il già citato Tag e la sua component di dissing, così ambiguo nel passare dal piacere al dolore e viceversa, così abile nel negare all’ultimo l’impudicizia promessa (preferendo un erotismo sporco ma non adolescenziale) che prende in giro il genere stesso e il suo appeal, si affonda nella mise en abyme di metafore dirette che si aprono dialetticamente, vedasi lo spazio scenico dell’open space-house che si fa via via più totalizzante rispetto alla narrazione che pur se ne distacca, simboleggiato dal rettile ormai troppo cresciuto per uscire dalla bottiglia di vetro: è troppo all’interno, come lo spettatore dentro il film. Da questo si origina la sintesi nell’ambito sociale, nel senso che la bottiglia è la sovrastruttura della lucertola, che non è affatto intrappolata, ma non conosce altro mondo (mondo storico, direbbe, se fosse umana) di là da quella. Il terzo livello è, perciò, ancora il medesimo di Tag (da cui mutua un’altra grande prestazione di Ami Tomite, sempre personaggio principale), esplorato attraverso il femmineo, ovvero quello di un elemento che restituisce, per via della sua genetica culturale, la complessità del conflitto tra l’individuo e la società. E così ecco che il quarto non è altro che il modo di pensare del cinema stesso di Sono, l’interrogarsi stesso dell’autore su di un eventuale essere prigioniero dell’apparato culturale che attacca e critica. In soldoni, è Sion Sono il rettile? Oppure è lo spettatore? O l’obiettivo polemico non è che l’ultima – quindi infrangibile – bottiglia?
In conclusione, Anchipuruno è l’anti-porno nel senso letterale del termine, cioè l’esplorazione attraverso la presa di distanza, la determinazione attraverso la negazione. Condensa, nonostante la fase non particolarmente brillante del percorso del regista (impossibile la comparazione con il quinquennio 2005-2010, foriero di enormi e numerosi capolavori, molti dei quali vere pietre d’angolo), il seme alla base dello schiudersi della geometria filmica dell’autore giapponese, mettendo una volta per tutte in chiaro che depoliticizzare il cinema giapponese in generale, quello di Sion Sono in particolare, è una mancanza disastrosa, in primo luogo, e poi che approcciare il modo di pensare di quest’ultimo come anarchico nel senso libertario del termine significa averne capito poco o nulla. Emblematica, in questo senso, al scena finale, dove il tripudio dei colori diventa fango, con Kyoko che in un battito di ciglia dal dimenarsi passa allo sguazzare, dal piacere al dolore.