L’onore di aprire la serata inaugurale di questo ventesimo Far East Film Festival alla presenza dei primi grandi ospiti internazionali – in sala tra gli altri anche Brigitte Lin e Hiroki Ryuichi – è toccato al coreano Steel Rain, una produzione originale Netflix disponibile già dallo scorso Dicembre sulla piattaforma di streaming e che a Udine ha avuto la sua prima proiezione europea sul grande schermo.
Tratto da un fumetto per il web realizzato dallo stesso regista Yang Woo-seok – nel 2013 esordiente con The Attorney, anch’esso presentato al FEFF –, Steel Rain è una parabola action che affronta la travagliata questione dell’unificazione delle due Coree, un tema quantomai attuale alla luce dei recenti sviluppi diplomatici e sul quale diversi compatrioti di Yang – uno su tutti Kim Ki-duk con Geumul (2016), approdato da poco anche nelle sale italiane – sono tornati a riflettere in questi anni.
L’agente speciale della Corea del Nord Eom Chul-woo – interpretato da Jung Woo-sung, il “Buono” del film culto di Kim Jee-won Il Buono, Il Matto, Il Cattivo (2008) – è incaricato dal proprio superiore di far fuori un generale a capo di una fazione golpista, salvo poi ritrovarsi suo malgrado invischiato nel complotto ordito ai danni del Supremo Leader, il quale viene ferito gravemente. Onde evitare che i disertori finiscano l’opera, Chul-woo è costretto a trasportare d’urgenza Kim Jong-un privo di sensi al Sud, dove trova l’aiuto dell’alto funzionario Kwak Cheol-woo – Kwak Do-won, anche lui volto noto già incontrato in The Attorney. Varcando continuamente il confine, la strana coppia dovrà collaborare per allontanare lo spettro della guerra atomica, un’eventualità di minuto in minuto sempre più concreta.
Cimentandosi in un genere completamente diverso da quello dell’opera prima, nonostante vada ormai per i cinquanta Yang si dimostra capace di confezionare una pellicola fresca ed elettrizzante, quantomeno nella sua prima metà. Azione, comic relief e fantapolitica appaiono infatti come tre elementi perfettamente bilanciati solo fino a quando la prevedibilità dell’intreccio – che però tarda a risolversi – non costringe lo spettatore a chiedersi se forse non la si stia tirando un po’ troppo per le lunghe. Il giro di informazioni e i giochi di potere che vedono coinvolti a turno Stati Uniti, Cina e Corea finiscono per annoiare, segno di una scrittura non così raffinata come il regista/sceneggiatore vorrebbe far credere – il che in realtà non stupisce se si tiene a mente il medium di partenza.
Ciò non scalfisce però la spessa corazza di Steel Rain, un film da vedere, e da vedere in sala data la sua vocazione spettacolare: da un lato un uso sapiente degli effetti speciali e degli stunt – il cui senso della misura i film d’azione statunitensi sembrano avere da tempo dimenticato –, ma anche una macchina da presa che non sacrifica mai l’intelligibilità alla velocità, in grado di rendere parimenti avvincenti le scene di combattimento corpo a corpo e gli inseguimenti in auto. E non dimentichiamo gli inediti “cattivi”: non i coreani dall’altra parte, ma le potenze straniere – Paesi asiatici inclusi – sono i veri nemici della pace, i quali non vedono l’ora di sganciare qualche bomba mandando all’aria decenni di trattati coadiuvati da un remissivo primo ministro coreano uscente – il quale è tuttavia un fin troppo comodo capro espiatorio degli errori di una collettività.
Benché fiaccato da una speculazione di minuto in minuto più dozzinale e da un epilogo che dal ridicolo transita pericolosamente nel territorio dell’apologia autocelebrativa, Yang si è dimostrato ancora una volta all’altezza della popolarità tributatagli in patria e all’estero, anche se sarebbe il caso di correggere di tiro.